Il confucianesimo è per l’Asia quello che il cristianesimo è stato per l’Europa. Un pilastro, una seconda pelle, un richiamo costante e un collante di duemila anni d’Impero. Intervista al prof. Maurizio Scarpari, curatore per Einaudi dei quattro tomi La Cina. Perché "non si può capire la Cina senza avere un’idea anche approssimativa ma complessiva della sua cultura".
Se l’ex Presidente cinese Hu Jintao nel suo discorso del luglio 2011 in occasione del novantesimo anniversario della nascita del Partito Comunista, ha citato una serie di concetti «classici», che si riferivano non solo a Confucio, ma perfino a Mencio, cosa significa? Tante cose, naturalmente.
Alcune di queste per altro stendono un’impietosa distanza circa la capacità della nostra cultura di affondare in quella cinese, con tutta la difficoltà palese insita nella comprensione di come la tradizione locale affiori anche nella contemporaneità.
Chi vive in Cina si è prima o poi scontrato con una riflessione: il cinese, perfino quello più open minded, come piace dire agli expat, in fondo in fondo è confuciano. E’ una sensazione che si mischia alla vita locale, agli studi fatti, alle parole usate, ai modi, all’educazione, al concepire la vita e la sua morale.
Il confucianesimo è per l’Asia quello che il cristianesimo è stato per l’Europa. Un pilastro, una seconda pelle, un richiamo costante e un collante di duemila anni d’Impero.
Maurizio Scarpari – professore di lingua cinese classica dal 1977 al 2011 presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove ha ricoperto diverse cariche accademiche, tra le quali quelle di Prorettore Vicario e di Direttore del Dipartimento di Studi sull’Asia Orientale – è l’anima e il curatore delle Grandi Opere per Einaudi dedicate alla Cina.
Quattro tomi, l’ultimo dei quali (Dall’età del Bronzo all’impero Han, a cura di Tiziana Lippiello e Maurizio Scarpari, Einaudi, Torino, 2013) è uscito alcuni giorni fa. Con il professore abbiamo effettuato una chiacchierata che rappresenta bene la Cina: un magma infinito di storia e tradizione, di percezioni e salti in avanti.
I quattro volumi partono da molto lontano e arrivano ai giorni nostri, in un affresco della storia cinese percorso attraverso quattromila pagine. Perché l’importanza e – aggiungeremmo – l’urgenza di quest’opera?
La risposta di Scarpari non è solo quella di un «classicista», ma è anche dell’intellettuale che prova a scardinare l’immobilismo delle idee occidentali, attraverso gli spunti orientali: «Oggi – e neanche ieri a dire il vero – non si può capire la Cina, senza avere un’idea anche approssimativa ma complessiva della sua cultura. E’ passata troppo a lungo l’idea che sia sufficiente conoscere la lingua; bisogna conoscere la cultura, il loro modo di ragionare, le dinamiche che portano ai processi decisionali e si può fare questo processo solo se si ha un chiaro quadro di quali sono i loro riferimenti».
E allora quando si parla di tradizione in Cina, ormai si parla di confucianesimo: un cardine cinese – e asiatico – che venne demolito da Mao e dal periodo comunista. Con la fine dell’epoca comunista e l’apertura di Deng e l’inserimento della Cina nel processo capitalistico mondiale – pur mantenendo le ormai celebri caratteristiche cinesi, su cui torneremo – la Cina si è trovata in un buco ideologico, morale, etico, visibile a occhio nudo per le strade delle megalopoli e delle campagne cinesi. E il recupero del confucianesimo viene letto proprio in quest’ottica: colmare un vuoto morale.
«Si dibatte ormai apertamente di «rinnovamento, ringiovanimento, rinascimento», fuxing nella lingua cinese», ha scritto il professor Scarpari nella sua introduzione a Mencio e l’arte di governo, (Marsilio, 2013). Si tratta, prosegue, di un «termine già impiegato in passato per indicare i momenti di passaggio più significativi da una fase politica all’altra. Ne ha parlato anche Xi Jinping nel suo primo discorso dopo la nomina a segretario generale del Partito comunista avvenuta il 15 novembre 2012».
Recupero di concetti tradizionali, che portano ad una domanda immediata: il confucianesimo riuscirà a creare «una nuova moralità socialista con caratteristiche cinesi» e soprattutto in che modo supporterà il cambiamento radicale che deve portare la società cinese a innovare per procedere al cambiamento economico che viene richiesto dal nuovo periodo storico?
«Con Hu Jintao – ci spiega Scarpari – c’è stata la svolta verso il confucianesimo, da Deng in avanti ci fu un cambiamento di politica economica e sociale che ha mutato tutto, creando lo sviluppo eccezionale che ha avuto la Cina in questi decenni. E’ sicuro un dato eccezionale ma ha lasciato sul tappeto degli squilibri molto importanti, cui si attribuisce a volte un peso molto importante, senza tenere presente che alcune discrepanze c’erano anche prima. Oggi ce ne sono di nuove – il sottoproletariato ad esempio, nuove diseguaglianze.
Senza dare giudizi di valore in questa sede, quanto è accaduto è molto semplice: si è creata una straordinaria ricchezza, 420 milioni di cinesi, entro il 2020, saranno i benestanti in Cina. Questa trasformazione ha dato vita ad una sperequazione enorme, con la conseguente mancanza di un collante, di un’ideologia dominante che ha sorretto il PCC storicamente. La generazione della Lunga Marcia è finita, non c’è più. Si è creato un vuoto, non solo di povertà, ma spirituale, culturale, che solo la religione e certi valori sono in grado di colmare».
E’ ipotizzabile che la leadership cinese abbia guardato con attenzione intorno a sé scegliendo un percorso completamente nazionale: «i dirigenti del paese pensano che i modelli occidentali non possono più andare bene ed è da questa considerazione che è nata l’idea che qualsiasi cosa debba essere portata avanti con «caratteristiche cinesi», che significa molto semplicemente andare a ripescare le proprie tradizioni che sono quelle che hanno funzionato, che – nonostante le tante contraddizioni – hanno tenuto insieme il paese.
Quindi ecco che oggi assistiamo alla riproposizione di un insieme di valori confuciani, che ormai sono considerati tradizionali, tanto che alcune università hanno gli «studi nazionalistici» tra le loro materie. C’è stata una trasposizione totale tra confucianesimo e tradizione cinese. Ed è questo che si stanno ripescando quei valori, sia in modo ufficiale, sia in modo non ufficiale; ad esempio nelle scuole, si stanno introducendo una serie di manuali che riprendono i valori confuciani».
Recentemente una legge obbliga i figli a prendersi cura dei genitori: si tratta di un altro cardine del confucianesimo, che per altro prova a regolare per legge quanto la Cina sta cercando di fare a ritmi serrati, ovvero urbanizzare il paese. Ed è forse all’interno di questo tipo di processi che si celano le contraddizioni più grandi: da un lato si spinge a svuotare le campagne, dall’altro si rammenta ai giovani che vanno in città, di ricordarsi – per legge – dei genitori che rimangono nei campi.
In questo senso Hu Jintao usò per la prima volta la parola «armonia» (hexie) e «società armoniosa» (hexie shehui), termini spesso ripresi in modo semplicistico dai media nostrani, pur trattandosi di concetti centrali per un qualsiasi cinese: «la società armoniosa nella cultura cinese ha un valore fondamentale, perché l’armonia non è concepita come in Occidente, una sorta di «vogliamoci bene»; in Cina l’armonia passa attraverso i conflitti, non è una cosa indolore, non è una cosa cristiana, l’armonia è qualcosa di diverso».
Armonia nasce in contrapposizione proprio al concetto di «esclusione» che le attuali diseguaglianze cinesi sembrano proporre. Come scrive Scarpari «l’armonia passa per l’accettazione della diversità, per il riconoscimento del disaccordo, per l’assunzione del conflitto, nasce proprio dalla ricomposizione delle differenti posizioni ed esigenze: he er bu tong è l’espressione, tratta dai Dialoghi di Confucio (Lunyu 13.24), che viene ancor oggi impiegata con il significato di armonia tra le diversità». (Maurizio Scarpari, Confucianesimo e potere nella Cina d’oggi, in Carlo Cunegato, Yleina D’Autilia, Michele Di Cintio (a cura di), Significato e dignità dell’uomo nel confronto interculturale, Armando Editore, Roma, 2013, pp. 46-64).
Non solo perché Hu Jintao «ha ripetutamente esortato la classe dirigente – scrive Scarpari – a non scordare mai che il potere di cui gode le viene direttamente dal popolo, per cui è logico che essa debba essere tutt’uno con il popolo e operare per il popolo. Da qui l’urgenza, già evidenziata in precedenti occasioni anche se con minor enfasi, di considerare l’uomo e il popolo il fondamento (yi ren wei ben o yi min wei ben) della politica del partito e del governo, e di agire sempre con condotta irreprensibile, salvaguardando la propria integrità morale e dedicando la massima attenzione ai bisogni della popolazione».
Si tratta di principi che ultimamente sono stati ripresi anche da Xi Jinping, sia nel lancio della sua campagna contro la corruzione, sia nell’inaugurazione di nuovi metodi di selezione e valutazione dei quadri di Partito, «che devono essere sempre su base meritocratica, se si vuole garantire a chiunque la possibilità di esprimere le proprie potenzialità e la propria creatività, favorendo così la coesione sociale e una vita individuale e familiare armoniosa, stabile, dignitosa e soddisfacente».
Fino a qui si tratta di teoria, ma la grande vivacità del dibattito cinese, suggerisce che il confucianesimo sia anche proposto in sede puramente politica, e non riferita solo alla governance nazionale: «il discorso cinese – prosegue Scarpari – ormai è anche un discorso internazionale; propone di fatto una governance mondiale. La Cina ormai si sente in dovere rispetto al mondo di essere propositiva e si sente in obbligo di farlo non solo per la salvaguardia dei propri interessi nazionali, che sono la prima cosa, ma da un punto di vista mondiale».
Jiang Qing, ad esempio «una delle personalità di maggior spicco del nuovo confucianesimo, fondatore della Yangmingjingshe (Accademia Yangming) con sede a Guiyang (Guizhou)» insieme al professor Daniel Bell (si tratta di un dibattito che è stato ospitato anche in quotidiani internazionali, mentre in Italia i media cercavano gli edifici più grandi, quelli più piccoli o altre stranezze cinesi) hanno provveduto a fornire un prototipo di «governance confuciana»:
«si tratta di un sistema tricamerale, con una Camera degli Eruditi (Tongruyuan), una Camera Nazionale (Guotiyuan), costituita dai discendenti di persone di grande valore, politici e dirigenti di specchiata onestà e provata esperienza, posta sotto guida di un diretto discendente di Confucio e la Camera del Popolo (Shuminyuan), costituita da membri eletti direttamente dal popolo».
Al di là di alcune stranezze, si tratta di una delle tante discussioni importanti in corso in Cina – su queste pagine abbiamo già parlato grazie a Wang Hui del vivace dibattito sulla Costituzione – che forse l’Occidente si dovrebbe degnare di ascoltare: «penso che dovremo ben presto fare i conti con quello che i cinesi ci stanno proponendo e valutare con attenzione, anche proponendo degli ovvi aggiustamenti, affinché si possano creare dei nuovi modelli di governance degli Stati tenendo conto delle proposte che arrivano da Pechino. Al di là di tutto, la loro storia è durata a lungo come nessun altro Impero al mondo, quindi sono titolati a dire la loro».
[Scritto per il Manifesto]