Le donne di Saman (17.60 €) è un romanzo plurale ambientato negli anni ’90 e uscito nel 1998. Le storie, al femminile, si svolgono sullo sfondo dell’Indonesia di Suharto, da cui emergono in un’alba di femminismo del tutto assente dalle tradizioni e convenzioni del Paese. China Files ve ne regala un estratto (per gentile concessione della casa editrice Metropoli d’Asia). NEW YORK, 28 MAGGIO 1996
Mi chiamo Shakuntala.
Mio padre e le mie sorelle mi chiamano puttana.
Perché sono andata a letto con alcuni uomini e diverse donne. Ma senza chiedere soldi. Le mie sorelle e mio padre non mi rispettano, e io non rispetto loro.
Perché per me vivere è danzare, e danzare è prima di tutto il corpo. L’anima è in debito verso il corpo, come quando Dio infonde il soffio vitale quaranta giorni dopo che l’ovulo e lo spermatozoo si sono uniti nel ventre.
Il mio corpo danza. Perché danzare è un infinito esplorare con la mia pelle e le mie ossa, che mi danno bruciore, dolore lancinante, brividi, ma mi fanno anche provare piacere. E prima o poi mi porteranno alla morte.
Il mio corpo danza. Non segue tanto l’istinto quanto piuttosto la passione. Il sublime. La libidine. Il labirinto.
Mi chiamo Shakuntala.
Dalla finestra vedo la mia amica Laila. Mi appare attraverso una nuvola di polvere sollevata dal vento sulla strada. Mi appare dal basso, dal marciapiede.
Prima la testa, poi il corpo e infine i piedi, un po’ come un bambino che viene alla luce, dalla stazione della metropolitana. Avanza a passo svelto, ma le foglie secche la seguono rincorrendosi e poi danzando vorticosa- mente nello spiazzo del mercatino delle pulci, nono- stante i venditori stiano chiudendo bottega per tornarsene a casa. È quasi sera. Cinque minuti dopo, spinge la porta del mio appartamento senza suonare il campanello. Quel rudere d’ascensore è ancora rotto. Non ha nemmeno il pulsante di chiamata. Sicuramente è salita a piedi.
Vedo la sua faccia come una miccia accesa rinchiusa in un tupperware trasparente. Non le chiedo niente, perché è chiaro che tra poco sarà lei a cominciare a raccontarmi.
Scaraventa la borsa sul tappetino e i pezzi di carta che stavano dentro si sparpagliano dovunque. Volano davanti alla lampada offuscandola per un attimo. Schizzi. Poesie.
«È morto. È morto». La sua faccia è come cera che si scioglie: ho paura che si trasformi rapidamente in una lastra compatta. Non saprò più distinguere la bocca e gli occhi per comunicare con lei.
«Allora, Sihar non è venuto?»
«L’hanno ammazzato. Temo che l’abbiano ammazzato».
«Che cosa?»
Allora mi parla di una teoria secondo la quale il suo ragazzo è stato accoltellato da un sicario assoldato da un qualche funzionario. Un killer, o semplicemente qualcuno dell’esercito. Faccio fatica a crederlo. Non perché sia impossibile.
Ho letto di Dietje, una modella che è stata uccisa vicino al recinto della piantagione di alberi della gomma di Kalibata. E anche di Marsinah, l’operaia lapidata fino a spappolarle gli organi interni del ventre. Solo che ho sempre pensato che la brutalità non potesse toccare le persone intorno a me.
Un omicidio è come un angelo: c’è ma è lontano e non si avvicinerà a me o ai miei cari. Ma cos’è che mi fa credere che si tratti di un evento impossibile? Ora comincio a crederci, perché non ho mai visto la mia amica così tesa. Trema. È vero che a New York in maggio fa ancora freddo. Ma lei è pallida come un geco, che non vive in questa città.
Le preparo del caffè istantaneo, sciogliendo una bustina di Starbuck Jamaica con del latte scremato. Credo che la caffeina faccia salire la pressione e il latte calmi. Credo anche che dopo i trent’anni si debbano evitare i grassi. La mia amica dovrebbe mettersi a dieta. Sta ingrassando, il suo collo comincia ad avere delle pieghe. Non dovrebbe bere latte intero.
«Sei sicura della notizia?»
Scuote la testa. «All’ufficio di Sihar nessuno vuole parlarmi. Forse non osano dare notizie del genere. E poi, è ancora troppo presto lì…»
«Tala», mi chiama di nuovo. «Ti prego, fammi un piacere! Telefona a casa sua a Giacarta, chiedi che notizie ci sono».
Sono bravissima a cambiare voce. Qualche volta sono la scimmia Sugriwa con suoni bassi e gutturali. Altre volte sono Cangik con la sua voce strascicata come la pelle flaccida delle sue ascelle.
Quand’ero ragazza mi piaceva danzare nel ruolo di Arjuna nel wayang orang, e tutte le ragazzine mi ammiravano perché, senza rendersene conto, non riuscivano a ritrovare tracce di femminilità in me. Ma ero anche Drupadi, che accende la passione nei cinque Pandawa. Durante il mio soggiorno a New York ero riuscita persino a farmi qualche soldo in più doppiando i film d’animazione sperimentali.
D’altra parte, se uno è capace di cambiare l’emissione vocale come si cambia stazione alla radio, perché dovrebbe essere difficile diventare un uomo per un attimo? Anche se a rispondere al telefono non è sua moglie, riesco a far credere di essere un americano. Quindi mi avvicino alla mia amica distesa sul divano con due fogli di scarabocchi senza senso: Voglio la bocca assetata/ di un uomo che ha perso la sua gioventù/ e fra i banchi di sabbia si abbandona alla corrente.
«Sihar non è morto», le dico un po’ delusa. Si, delusa. Laila mi guarda, sollevata e speranzosa.
Continuo: «È al Days Inn Hotel. 57ma strada ovest.
Con sua moglie».
La sua faccia cambia come un pezzo di pane raffermo che viene inzuppato in una scodella di minestra calda. C’è un’energia che prima sembra esplodere e poi scema. D’altra parte la mia amica ha solo due alternative, entrambe spiacevoli: la morte o l’abbandono. La realtà dei fatti fa propendere per la seconda.
*Ayu Utami, nata nel 1968 a Bogor, West Java, ha scritto romanzi, racconti, e articoli. Le donne di Saman (1998) è considerato il suo capolavoro. Utami scrive di sesso e politica, argomenti precedentemente proibiti alle donne indonesiane, ed è stata così l’iniziatrice del movimento "sastra Wangi", nuova corrente letteraria che vede protagoniste le donne emancipate della nuova middle-class indonesiana.