La marcia per ricordare la restituzione di Hong Kong alla Cina è ormai un appuntamento annuale. Ma quest’anno è stata ancora più importante: si sono chiesti suffraggio universale e dimissioni dell’attuale capo di Stato. Così decine di migliaia di persone hanno sfilato sotto la pioggia.
Ad Hong Kong uno dei tanti edicolanti che offrono giornali, riviste, fumetti e dvd, ha in mostra molto materiale con in copertina Xi Jinping, il Presidente cinese. Se all’edicolante si chiede che ne pensa di quello che sarà il suo futuro leader, la risposta è secca: «non sarà mai il mio futuro leader».
Del resto ultimamente gli abitanti di Hong Kong hanno avuto molto da ridire contro i cinesi: quest’ultimi – miliardari o meno – arrivano nell’ex colonia britannica a fare shopping, riempire alberghi e strade, risultando sgradevoli agli occhi degli ex british di Hong Kong, tanto da guadagnarsi l’appellativo di «cavallette».
Forse anche con queste sensazioni, di un netto distacco e differenza rispetto ai «continentali», ieri in migliaia a Hong Kong hanno celebrato, a proprio modo, il primo luglio del 1997, quando avvenne il ritorno della città alla Cina, nell’ambito di quella teoria di «un paese, due sistemi» (yiguoliangzhi) lanciato da Deng Xiaoping (artefice insieme alla Thatcher dello storico passaggio) e che fino al 2046 dovrebbe regolare i rapporti politici tra i due luoghi, garantendo autonomia politica ed economica a Hong Kong.
Si tratta di una manifestazione, con tanto di concerto pop, che è ormai una tradizione nell’ex colonia britannica; le migliaia di persone scese in piazza a Hong Kong ieri però – sfidando il tifone e la pioggia – avevano un obiettivo molto netto e chiaro: il suffragio universale, libere e regolari e vere elezioni.
Democrazia, diremmo dalle nostre parti. Ad ora ad Hong Kong per eleggere il primo ministro – che viene chiamato chief executive, a ribadire l’entità soprattutto economica della gestione della città – partecipano circa 1200 grandi elettori.
Non è neanche da specificare che più passa il tempo, più i grandi elettori sono considerati sempre più vicini a Pechino, con il pericolo, secondo la popolazione di Hong Kong, della perdita di quelle caratteristiche che fanno dell’ex colonia un posto unico al mondo.
Una Cina meticcia, mischiata di etnie provenienti da ogni parte del mondo, con libertà di stampa e di manifestazione, dove ogni anno è possibile ricordare il 4 giugno 1989, ad esempio. Una Cina quasi libera perché il suffragio universale, quello vero, non c’è.
I politici locali l’hanno promesso entro il 2017 e ieri le migliaia di persone sotto la pioggia l’hanno ricordato, con forza e con presenza imponente. E l’attuale chief executive Leung Chun-Ying ha specificato che il governo lancerà a breve una consultazione sulle riforme politiche «in un momento appropriato», Pechino permettendo, naturalmente.
[Scritto per il manifesto; foto credits: guardian.co.uk]