Giappone – Womenomics, se non ora quando?

In by Gabriele Battaglia

Le donne giapponesi sono da sempre costrette a decidere: famiglia o lavoro. Mancando gli asili e politiche aziendali per favorire il rientro dalla maternità, il 70 per cento di loro abbandona il lavoro per dedicarsi ai figli. Eppure le donne potrebbero essere la soluzione a molti dei problemi economici e sociali del Giappone. "La risorsa umana meno sfruttata del nostro Paese sono le donne". Così Abe Shinzo, primo ministro giapponese, quando ad aprile scorso aveva rivelato uno dei punti fondamentali del suo programma economico, poi ribattezzato Abenomics: il maggiore coinvolgimento delle donne nel mondo del lavoro.

Proprio in quell’occasione Abe aveva invitato i grandi gruppi industriali giapponesi a promuovere un maggior numero di donne a ruoli esecutivi. "Almeno una per azienda", questa la stanghetta posta dal numero uno del Partito liberal-democratico e del governo di Tokyo. Secondo una ricerca dell’editore economico Toyo Keizai, citata dal Financial Times, meno del 2 per cento dei posti di livello manageriale nelle aziende giapponesi titolate in borsa è occupato da donne.

Solo il 15 per cento delle aziende del Sol Levante ha donne in posti di responsabilità. E il confronto con l’Europa è impietoso: qui le donne occupano in media il 14 per cento del totale dei posti che contano in un’azienda.

Non sarà di certo la sola retorica a tirare l’economia giapponese fuori dalla sua ventennale stagnazione. Ma c’è chi considera un enorme passo in avanti il solo fatto che Abe abbia posto la questione della disparità tra sessi in riferimento alla strategia di crescita economica studiata dal governo e dalla Bank of Japan. Kathy Matsui, chief equity strategist e responsabile del settore ricerca per l’Asia a Goldman Sachs, è tra questi.

Che nelle aziende giapponesi ci sia una questione femminile, lei lo sostiene da tempo: più precisamente dal 1999, quando pubblicò un primo rapporto intitolato Womenomics: Buy the Female Economy.

La tesi di base della signora Matsui era, ed è tutt’oggi, molto semplice: più velocemente un paese riesce ad eliminare la disparità tra sessi in ambito lavorativo, prima godrà dei frutti della raggiunta uguaglianza. In particolare, se la percentuale di forza lavoro femminile fosse uguale a quella maschile, il prodotto interno lordo aumenterebbe.

E non di poco, spiega Matsui. "Se il tasso d’impiego femminile (60 per cento nel 2009) raggiungesse la percentuale di forza lavoro maschile (80 per cento) – si legge nel rapporto – ci sarebbero di 8,2 milioni di lavoratori in più mentre il Pil nazionale crescerebbe del 15 per cento".

Ad oggi la situazione però è diametralmente opposta. Le donne che abbandonano il lavoro dopo la gravidanza sono il 70 per cento, il doppio, rispetto, ad esempio, alla Germania. Ben il 75 per cento di loro vorrebbe tornare a lavorare. Ma chi vi riesce, meno della metà, si ritrova declassata a livelli salariali da neo-assunto.

Sostiene Kathy Matsui che il Giappone non può permettersi di aspettare. Le disuguaglianze tra uomini e donne nel mondo del lavoro vanno eliminate subito. "Il momento giusto è ora" scriveva l’economista nell’ultimo rapporto pubblicato per Goldman Sachs dell’ottobre 2010, intitolato non a caso Womenomics 3.0.

La popolazione nipponica continua a restringersi, il tasso di natalità è negativo, il debito pubblico è enorme e, di conseguenza, lo Stato fatica sempre di più a sostenere il costo delle pensioni di anzianità. Queste le ragioni per cui non è più possibile prendere tempo per agire.

Nel 2055, avverte il Fondo monetario internazionale, la popolazione del Paese arcipelago sarà diminuita di circa un terzo e la popolazione attiva sarà dimezzata rispetto a oggi.

"So che ci sono eredità culturali e storiche da superare. Ma basterebbe che il Paese utilizzasse più efficacemente metà della sua forza lavoro: questa potrebbe essere una parte della soluzione ai problemi demografici del Giappone", spiega Matsui in un’intervista video pubblicata sul sito di Goldman Sachs. "In Cina non esiste lo stesso gap d’impiego che avvertiamo in Giappone. Nessuna sorpresa che la Cina cresca a ritmi elevati".

Altro nodo cruciale, la cura dei bambini: in Giappone mancano le strutture e le donne non hanno altra scelta se non abbandonare il lavoro per accudire i propri figli. Un problema su cui lo stesso primo ministro ha voluto rassicurare la nazione promettendo di aumentare di 250 mila unità nei prossimi anni il numero delle strutture degli asili infantili.

Qualche grande azienda ha già iniziato a muoversi. Shiseido, colosso giapponese della cosmetica, dagli anni ’90 concede alle sue dipendenti con bambini permessi lunghi per la maternità o una riduzione dell’orario, sussidi per l’asilo e asili nido interni aziendali. "Sono grata a un’azienda che mi aiuta a prendermi cura dei bambini", ha spiegato alla Cnn Honda Yuki, dipendente Shiseido madre di due figli.

Anche Aeon, primo operatore nazionale della grande distribuzione, ha iniziato a porsi obiettivi sensibili per favorire la presenza femminile in azienda. Come riportava a maggio scorso il magazine J-Cast, oggi le donne impiegate dal gruppo sono più di 20mila, circa il 38 per cento del totale. Entro il 2020 l’obiettivo è raggiungere il 50 per cento di dipendenti donne in tutti i livelli e il 30 per cento a livello manageriale.

Dire di chiudere il gender gap è facile. Farlo lo è meno. "Tutto inizia dal cambiare la mentalità: le ragazze – spiega ancora Matsui – devono ricevere educazione, sviluppare abilità in modo da capire che possono davvero diventare leader". Un cambiamento lento, ma inesorabile. Anche perché al Giappone di oggi "non rimangono molte altre opzioni"

[Foto credits: blog.asilish.com]