In Cina, gli scali nascono come funghi e sono inesorabilmente in perdita. Di fatto si spera che siano loro a creare business e, in attesa che questo succeda, si punta su un modello quantitativo, basato sul mattone e sul cemento, che va per la maggiore ma che è sempre meno sostenibile. Entro il 2015, la provincia che diede i natali nientepopodimeno che a Mao Zedong, l’Hunan, avrà sette nuovi aeroporti che si aggiungeranno ai cinque già esistenti. Sono tutti economicamente in perdita. Ciò nonostante, il governo locale non ha esitato a mettere a budget ben 30 miliardi di yuan (oltre 3 miliardi e 700 milioni di euro) per foraggiare la nuova colata di cemento. Il Jingji guancha bao (Economic Observer) riporta le parole del gongolante Chen Guaoqiang, responsabile di tutti gli aeroporti dell’area: “L’Hunan diventerà la provincia con il maggior numero di aeroporti della Cina centro-meridionale”.
Come quello di Lingling, per esempio, presso la città di Yongzhou. Costruito nel 2001, ha voli solo su Pechino (uno al giorno, quattro volte a settimana) e Kunming (tre volte); in tutto il 2012 vi sono transitati la bellezza di 12.056 passeggeri che lo piazzano 174esimo, nella classifica del traffico, su 183 aeroporti cinesi. Ogni anno, Lingling sta in piedi grazie a 10 milioni di yuan (1 milione e 260mila euro) di sussidi governativi. Le perdite medie annue di ogni scalo dell’Hunan si aggirano sui 15-16 milioni di yuan.
In Cina stanno nascendo aeroporti come funghi. Ai 183 attuali, il 12° piano quinquennale (2011-2015) ne aggiungerà altri 56 di nuova costruzione, mentre 16 saranno spostati e 91 ampliati. Eppure, la maggior parte è in perdita, il classico caso di investimento che non torna indietro.
Ma allora perché si continua a costruirli?
Un imprenditore cinese ci ha raccontato una barzelletta. “Un ebreo apre un ristorante in una città straniera. L’anno dopo, arriva un altro ebreo e apre di fianco al ristorante uno spaccio di alimentari, che lo rifornisce. L’anno dopo ancora, arriva un terzo ebreo che apre una banca, la quale finanzia sia il ristorante sia il negozio di alimentari. Nella stessa città, un cinese apre un ristorante. Dopo un mese, arriva un altro cinese e ci apre di fianco un ristorante. Passa un altro mese ed ecco un terzo cinese, che apre un ristorante. Poi arriva il quarto cinese…”
Dietro all’autoironia, si nasconde una verità e un modello di business. Quando le “libere forze di mercato” sono lasciate a se stesse, quando la direzione politica non è illuminata e prevalgono gli interessi particolari, in Cina si tende a puntare sulla ricetta sicura: quella che offre profitti immediati – al massimo a due anni dall’investimento – senza che si faccia sistema, si punti alla qualità o si pianifichino investimenti a lungo termine. Se il tentativo va male, non c’è problema: il ristorante si trasforma in un negozio di smartphone o di sigarette. E così via, di tentativo in tentativo.
Questo modello, che ha garantito finora un livello di flessibilità sia del business sia della forza lavoro adatto alle condizioni di un’economia iperproduttiva e poco qualitativa, oggi è un limite. Perché impedisce di ottimizzare le risorse: sia gli investimenti economici, sia le competenze dei lavoratori. Non concede tempo per costruire progetti di lungo periodo, non permette approfondimento dei percorsi professionali, non crea innovazione, spreca soldi. È un modello quantitativo e non qualitativo.
Ora, applichiamolo agli aeroporti. Lì, la ricetta sicura si chiama “cemento” e il business è un sottosegmento dell’immobiliare e delle costruzioni: terminal, piste, torri di controllo, alberghi, strade per arrivarci. È un po’ la questione dell’uovo e della gallina: i governi locali non costruiscono l’aeroporto dove già c’è un fiorente business che ne ha bisogno, ma sperano che sia proprio lui a crearlo. Intanto si ottiene da subito un risultato: la colata di cemento, che si traduce in tasse per i sovente disastrati bilanci locali e in tangenti per singoli funzionari.
Dietro alla nuova ondata di scali, c’è lo stesso principio che governa l’economia cinese almeno dal 2009. Allora, si pensò di alzare un muro contro la crisi che arrivava da Occidente con un pacchetto di stimoli da 4mila miliardi di yuan (586 miliardi di dollari del tempo), che finì soprattutto in sviluppo immobiliare e infrastrutture.
Era una Cina che così risolveva due problemi: si dotava di nuove strade, ferrovie, aeroporti (appunto) all’altezza della sua economia galoppante e al tempo stesso dava lavoro a una massa di migranti professionalmente poco qualificati.
Tuttavia, nel corso del tempo, la colata di cemento è diventata molto semplicemente il metodo per alzare aritmeticamente l’asticella del Pil e dare prestigio, carriera e mazzette ai funzionari locali. E ha creato la bolla immobiliare da cui la Cina fatica a liberarsi e che sottrae risorse a investimenti più produttivi.
Per costruire, si accede infatti al prestito bancario; ma i bad loans, cioè i crediti che non si traducono in profitti e non tornano indietro, sono in costante aumento: secondo gli ultimi dati, sono saliti a 526,5 miliardi di yuan (86 miliardi dollari) nei primi tre mesi del 2013. È la più lunga striscia negativa da nove anni a questa parte.
Dato che i maggiori creditori sono le banche di Stato, la continua colata di cemento destabilizza il sistema finanziario e anche quello politico.
L’autorevole rivista economica Caijing sostiene che la realtà è ancora più inquietante di quanto rivelino i dati ufficiali. Una grande quantità di asset tossici sarebbero infatti stati nascosti dalle banche, che cercano così di mascherare i propri conti. Nel frattempo, i governi locali e le grandi imprese si starebbero sempre più rivolgendo al cosiddetto “credito ombra” (canali di finanziamento privati e non istituzionali) per ottenere nuovi finanziamenti o per rimborsare o rinnovare prestiti contratti precedentemente, così i rischi di insolvenza si estendono al di fuori del settore bancario.
I dati parlano di un totale dei finanziamenti che aumenta clamorosamente più del Pil nazionale (39 per cento contro 7,7).
Dove finiscono quei soldi?
Scontata la risposta: nelle bolle speculative, di cui gli aeroporti sono la manifestazione più recente. Tuttavia si continua a pensare che tirino l’economia più di quanto facciano spendere.
Lo scorso marzo, alla riunione annuale dell’Assemblea Nazionale del Popolo, il capo dell’Aviazione Civile cinese, Li Jiaxiang, ha detto ai media che nel 2012 il totale delle perdite subite dagli aeroporti nazionali ammontava a oltre 2 miliardi di yuan (tra i 250 e 300 milioni di euro). Tuttavia, lui ritiene che gli scali abbiano generato mille volte tanto – cioè oltre duemila miliardi di yuan – in termini di attività economiche indotte. Come spesso accade, sono dati non verificabili. Ma è una forma mentis che trova cittadinanza politica nello stesso parlamento di Pechino.
A ben vedere, è un ragionamento che assomiglia parecchio a quello che ispira la nuova strategia di urbanizzazione che investe tutta la Cina: creiamo lo scatolone di cemento, lì dentro qualcosa di buono succederà di sicuro.