In India tra il 25 e il 40 per cento della produzione totale di cibo marcisce nel tragitto dal produttore al consumatore. Uno spreco enorme che si somma all’ignoranza dei nuovi indiani urbani, che non applicano più la saggezza alimentare tramandata da generazioni e viva nelle campagne.
L’altro giorno ho dovuto buttar via un chilo di patate. Avevo comprato un po’ di verdura: portata a casa, messa da qualche parte in frigo, con patate e cipolle piazzate nel posto di sempre.
Tre giorni dopo era comparso un lussureggiante strato di muffa bianchiccia. Così ho dovuto buttare le patate, che erano ancora nel sacchetto di plastica, in frigo.
Ovviamente mi sono sentita in colpa per lo spreco di cibo. Ma mi sono sentita ancora peggio perché, da un angolino del mio cervello, una voce mi aveva avvertito: “Leva le patate dalla plastica, lavale e falle asciugare, altrimenti vanno a male.”
Questo piccolo consiglio è parte di una saggezza alimentare tramandata fino a noi – almeno alle donne della mia generazione – dalle nostre madri e dalle nostre nonne. Ma poi siamo andati negli studentati delle università e abbiamo trovato un lavoro prima di aver imparato a farci da mangiare. Oppure abbiamo preso qualcuno che si occupasse della cucina. Un po’ per trascuratezza e un po’ perché non possiamo più venir disturbati, quella saggezza noi non la applichiamo più.
Alcuni di noi potranno anche aver imparato i processi chimici dietro alla conservazione del cibo: come l’aria e l’umidità rimangono intrappolate nei sacchetti di plastica, come al buio in presenza di umidità nascono i funghi, il processo di naturale maturazione della frutta.
Può anche darsi siano nozioni prese dai libri di testo a scuola, ma ci dimentichiamo di applicarle alla nostra vita quotidiana. Ci dimentichiamo che questa è uno dei saperi più importanti che un essere umano possa vantare.
E tutto ciò ha un prezzo che paghiamo non solo noi che combattiamo contro l’inflazione al banco della verdura, ma tutta l’India come nazione, col resto della popolazione che soffre di malnutrizione. Perfino papa Francesco ha detto che sprecare cibo è come rubare ai poveri.
La produzione di cibo al mondo è più che sufficiente, si aggira intorno ai quattro miliardi di tonnellate di grano. Ma 1,3 tonnellate – pari a un terzo della produzione mondiale – ogni anno vengono sprecate. Ed è colpa sia dei paesi sviluppati che di quelli in via di sviluppo.
La mancanza di strutture adeguate per la conservazione e il trasporto del cibo è una delle cause che si va ad aggiungere ad uno stile di vita dove lo spreco è incredibile.
Recentemente, sul magazine Tehelka, una serie di articoli spiegavano che nelle case dell’India rurale non si butta via quasi niente. Le bucce e gli scarti dei cereali, ad esempio, vengono utilizzati come mangime per gli animali. Ma sempre più indiani vivono in città e non sanno nulla di come far crescere un seme, come conservare, proteggere e riciclare il proprio cibo.
Inoltre, far arrivare il cibo nelle aree urbane non è cosa semplice. Al momento versiamo in una situazione così grave che tra il 25 e il 40 per cento della frutta e verdura che produciamo marcisce nel tragitto dal produttore al consumatore. Il fardello dello spreco di cibo viene stimato intorno a un orrendo quintale per famiglia.
Ma c’è anche un altro tipo di spreco. Il presidente della commissione dell’Onu per la biodiversità, Zakri Abdul Hamid, ha sottolineato come la perdita di diversità stia intensificando la crisi della nutrizione. Sulla Terra esistono 30mila diverse specie di piante commestibili, ma noi ne coltiviamo sistematicamente solo una trentina.
Ciò significa che ogni volta che si verifica un cambio anche minimo delle condizioni climatiche, del suolo o dell’approvvigionamento di acqua, e un raccolto va male, molta più gente rischia di soffrire la fame.
Anche gli animali sono a rischio: 22 specie sono a rischio estinzione perché gli animali vengono allevati solo per il proprio latte o prodotti derivati, non perché siano gli animali più forti, in grado di sopravvivere ad un clima più duro.
Non riesco a non chiedermi come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto. Com’è possibile che nazioni moderne e con un processo di urbanizzazione così veloce non stiano promuovendo aggressivamente metodi di gestione delle risorse alimentari?
È perché si tratta di un lavoro poco o non pagato? O perché molte generazioni non si sono mai coltivati una patata con le proprie mani? Oppure perché le persone che non hanno mai coltivato una pianta e non sono interessate alla sperimentazione di diete alternative sono le stesse che hanno in mano le redini dell’economia?
[Articolo originale pubblicato su Daily News and Analysis]
*Annie Zaidi scrive poesie, reportage, racconti e sceneggiature, non necessariamente in quest’ordine. Il suo libro I miei luoghi: a spasso con i banditi ed altre storie vere è stato pubblicato in Italia da Metropoli d’Asia.