Eppur si muove. Il lavoro in Cina

In by Simone

Sono undici anni che la Cgil pubblica il  Rapporto sui diritti globali ponendo l’accento sul fatto che in un mondo sempre più globalizzato anche la difesa dei diritti dei lavoratori deve essere globale. China Files vi propone lo stralcio sul lavoro in Cina (per gentile concessione della casa editrice Ediesse)
La dimensione del lavoro è in forte movimento nel Paese, in particolare da quando è stata approvata, nel 2008, la nuova legislazione che migliora in misura apprezzabile, per quanto decisamente insufficiente, il quadro dei diritti sindacali. Si è assistito, a partire dalla seconda metà del 2010, all’avvio di un’ondata di scioperi in molte fabbriche a capitale straniero, movimento non ostacolato dal governo; tali proteste hanno avuto un sostanziale successo.

Ciò ha determinato due effetti collegati almeno in parte tra di loro: i salari stanno crescendo e contemporaneamente molte imprese non trovano la manodopera loro necessaria per espandersi. A Pechino, nella regione del Guangzhou e altrove il salario minimo è stato aumentato del 20%. L’ammontare delle retribuzioni è cresciuto in misura anche maggiore in molte imprese. Per alcune categorie di operai specializzati sono ormai offerti, almeno in alcune fabbriche, sino a 700 dollari al mese. A questi ritmi, quanto tempo dovrà ancora passare perché i lavoratori cinesi guadagnino come quelli di Mirafiori? Pochi anni, probabilmente.

Per quanto riguarda invece le carenze quantitative di manodopera nelle zone costiere, le più sviluppate del Paese, si è cominciato a parlarne già da qualche anno, ma negli ultimi tempi la situazione è andata aggravandosi. Dietro questi sviluppi stanno diversi fenomeni, alcuni registrabili a livello complessivo del Paese, altri che toccano invece in maniera differenziata le diverse aree economiche. Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna ricordare che le tendenze demografiche in atto mostrano come il numero delle persone in età tra 15 e 24 anni, che si affacciano appena sul mercato del lavoro, abbia raggiunto nel Paese la sua punta massima nel 2005, con 227 milioni di unità, mentre ci si attende che esso si ridurrà presumibilmente a soli 150 milioni nel 2024 (Jacob, Waldmeir, 2011).

D’altro canto, a livello geografico, in passato tale mercato era alimentato dalle decine di milioni di persone che, per trovare un’occupazione, erano costrette a trasferirsi, in condizioni spesso molto disagiate, dalle regioni interne verso quelle costiere. Ora lo sviluppo economico di tali aree più remote, processo peraltro al momento ancora abbastanza diseguale e alimentato anche dal trasferimento verso l’interno di molte imprese alla ricerca di manodopera e di un suo costo più basso e, più in generale, di minori costi di produzione, insieme a un aumento dei salari in tali aree, trattiene una parte almeno della manodopera negli insediamenti più prossimi alle loro aree di origine.

Costo del lavoro e competitività

Naturalmente, tutto questo sta in particolare contribuendo, come già accennato, a far lievitare in maniera rilevante i salari in tutto il Paese. Questi aumenti di costo della manodopera, insieme con quello, almeno altrettanto rilevante, delle materie prime – fenomeno quest’ultimo dovuto ai forti aumenti di prezzo registrati di recente sui mercati mondiali –, nonché infine a quello tendenziale dei rapporti di cambio con il dollaro, non tendono forse a spingere le produzioni cinesi fuori mercato a livello internazionale?

In realtà, agiscono in controtendenza forze potenti e il risultato finale appare così molto meno drammatico di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Intanto, mentre aumentano i salari, aumenta fortemente anche la produttività del lavoro. Per esempio, nel settore dell’abbigliamento, tra il 2003 e il 2010, essa è cresciuta in media del 13% all’anno (Jacob, Walmeir, 2011).

D’altro canto, la gran parte delle imprese non trova conveniente delocalizzare le produzioni in altri Paesi sia per la grande importanza del mercato locale sia per la possibilità di spostarsi invece nelle regioni interne dove i costi, pure in aumento, sono comunque più bassi; bisogna ancora ricordare la presenza nel Paese d’infrastrutture materiali e immateriali simili per molti versi a quelle dei Paesi sviluppati e molto migliori invece di quelle dei Paesi vicini, nonché l’abilità e la rapida capacità di apprendimento della forza lavoro locale.

È comunque in atto da parte delle stesse imprese cinesi, oltre che di quelle straniere, uno spostamento relativamente limitato, almeno per il momento, di produzioni in Paesi quali il Vietnam, l’India, il Bangladesh, l’Indonesia, ciò che contribuisce anche a tenere bassi i costi degli stessi prodotti cinesi. Inoltre, il costo del lavoro rappresenta di solito soltanto una frazione relativamente ridotta di quello complessivo delle merci prodotte nel Paese; in particolare, nella gran parte dei prodotti esportati, esso pesa tra il 10 e il 15% del totale (Jacob, Giles, 2011).

Infine, spinti dall’aumento dei costi del personale, dalle politiche statali che indirizzano il sistema economico verso produzioni sempre più qualificate, nonché dai loro stessi interessi economici di lungo periodo, le imprese cinesi si stanno muovendo rapidamente verso i livelli più alti nella catena del valore delle produzioni, che tendono a essere sempre più sofisticate e a crescente valore aggiunto. La crescita del PIL di un Paese è affidata a tre fattori: i consumi interni, gli investimenti, l’andamento della bilancia commerciale.

Tradizionalmente, lo sviluppo economico cinese si è basato, in particolare, negli ultimi trenta e più anni, sulla spinta portata dagli ultimi due fattori citati; invece, ad esempio, negli Stati Uniti esso è affidato fondamentalmente all’espansione dei consumi. Ma ora, mentre i consumi interni cinesi crescono fortemente e gli investimenti continuano a svilupparsi in misura ancora più sostenuta – il loro costante aumento sta del resto al centro degli interessi del blocco di potere che governa il Paese –, interessanti e, almeno in parte, inaspettate novità sembrano prodursi sul fronte del commercio con l’estero.

Le cronache economiche hanno infatti registrato che nei primi tre mesi del 2011 la bilancia commerciale è andata in rosso, sia pure soltanto per circa un miliardo di dollari (Reuters, 2011), contro invece un surplus di 13,9 miliardi ottenuto nel corrispondente periodo dell’anno precedente. Nel 2010 solo in un mese si era registrato un fenomeno analogo. A febbraio 2012 la bilancia commerciale della Cina ha registrato nuovamente un saldo negativo (-31,5 miliardi di dollari), rispetto ai +27,2 miliardi di gennaio dello stesso anno.

Questi andamenti altalenanti dipendono in parte dalle variazioni dei prezzi delle materie prime di cui il Paese è un importatore fondamentale. Ciò non toglie che la bilancia commerciale cinese ha segnato in febbraio il peggior deficit da 22 anni. Negli ultimi tempi, più in generale, si era registrata una riduzione del surplus commerciale del Paese, tendenza che si è invertita nel 2011. Si è passati da un avanzo di 290 miliardi di dollari nel 2008 a uno di 196 miliardi nel 2009, a una cifra leggermente più ridotta nel 2010, 183 miliardi. Nel 2011 il totale dell’import-export cinese ha però messo a segno un aumento su base annua del 23% e, a fine 2012, il saldo delle merci in entrata e in uscita dal Paese è stato pari a 231 miliardi di dollari.

Molti segnali sembrano indicare che l’economia cinese, per mantenendo una velocità molto elevata, si stia avviando verso un modello di sviluppo diverso dal passato e più sofisticato. Lo testimoniano, tra l’altro, la crescita dei salari e dei diritti sindacali, l’aumento delle produzioni a maggiore valore aggiunto, un certo riequilibrio del commercio internazionale, una maggiore attenzione ai consumi interni, l’aumento dei livelli di protezione sociale, peraltro ancora scarsi. Questo non significa che non permangano e, per alcuni versi, non si complichino alcuni problemi di fondo, quali le diseguaglianze di reddito e altri, apparentemente di tipo più congiunturale, quali la bolla immobiliare nelle grandi città o i livelli di inflazione. Sul terreno politico, poi, sembra diventare più grave la situazione dei diritti dei cittadini (Comito, 2012 a).

*Associazione Società Informazione Onlus si è costituita a Milano nel 2001. Svolge prevalentemente attività di ricerca, studio e promozione culturale e informativa delle tematiche riguardanti la tutela dei diritti umani, sociali e civili, la cultura della convivenza e della salvaguardia ambientale ed ecologista. Anche a tali fini, l’Associazione ha promosso e gestisce un Centro Studi, diretto da Sergio Segio, che ha ideato il Rapporto sui diritti globali e che dal 2003 lo realizza attraverso la propria redazione.