Ieri 120 lavoratori sono morti nell’incendio di una fabbrica di pollame: il più grave degli ultimi anni. Oggi, però, niente candele per loro e per i loro parenti. A 24 anni da Tian’anmen, infatti, le candele sono diventate simbolo della commemorazione di quei fatti. Una carneficina di cui in Cina non si può e non si deve parlare. Se ieri migliaia di persone in Cina hanno potuto postare candele per commemorare i 120 morti della fabbrica di polli del Jilin, oggi 4 giugno, 24esimo anniversario dei fatti di Tian’anmen non è più possibile farlo. Le candele sono il simbolo della commemorazione per le vittime del massacro di 24 anni fa che ogni anno si tiene ad Hong Kong. All’epoca furono duecento le vittime accertate, ma oltre duemila secondo altre fonti.
E ieri sono morti 120 lavoratori nella regione nordorientale del Jilin. Questa è la notizia che campeggia in prima pagina su giornali locali. Un funzionario è già stato arrestato. Secondo una prima ricostruzione, riportata da Xinhua, il fuoco che in pochi minuti ha incendiato la fabbrica lasciando i lavoratori senza via di fuga sarebbe stato scatenato da una perdita sospetta di materiale chimico.
Secondo lo stesso report, oltre ai 120 morti ci sarebbero 70 feriti in gravi condizioni. In tutta la fabbrica lavoravano circa 300 persone, non è chiaro quanti di questi ancora mancano all’appello. La fabbrica produceva 67mila tonnellate di prodotti di pollo l’anno.
Un reporter del Global Times che si trovava sul posto, ha diffuso la notizia che la maggior parte delle porte della fabbrica erano chiuse dall’esterno. L’unico varco possibile era quindi una stretta uscita di sicurezza, che ha reso la fuga ancora più difficile. Secondo i parenti delle vittime intervistati dal giornalista, questa era una procedura comune motivata dalla paura che gli operai si assentasserro durante le ore di lavoro.
Secondo le statistiche riportate da Baidu, il motore di ricerca più importante della Repubblica popolare, è stato l’incendio peggiore dell’ultima decade. Il triste primato è tenuto ancora dall’incendio in un centro commerciale di Luoyang. Era il 25 dicembre del 2000, e fece 309 morti.
Il China Daily intervista un sopravvissuto, Chen Hengwu. “Il fuoco è stato così improvviso e intenso che era difficilissimo scappare”. Secondo la sua ricostruzione, Chen era appena arrivato in fabbrica quando, intorno alle 6:08 di mattina, ha sentito urlare “scappate!”.
“Non c’era più elettricità, e la stanza era offuscata da un intenso fumo nero […] Tutti correvano, c’era un caos tremendo […]. Io ero a soli sei metri dall’ingresso, per questo sono potuto uscire molto rapidamente. […] Quando i pompieri sono arrivati era già troppo tardi, le fiamme erano già fuori dall’edificio”. Ci sono poi altre interviste, e quello che più colpisce è che ognuno dei sopravvissuti intervistati aveva un parente (la moglie, un fratello, una cognata) all’interno della fabbrica. Ma nessuno di loro è potuto tornare indietro per accertarsi delle loro condizioni.
Una tragedia, per ricordare un’altra tragedia. Oggi un editoriale di un giornale della regione dello Shaanxi, lo Huangshang Daily, scrive un editoriale che può essere letto in funzione dei lavoratori del Jilin e dei manifestanti che 24 anni fa espresso la loro voglia di partecipare alla costruzione della nuova Cina. “Noi che siamo vivi, dobbiamo capire perché coloro che sono morti sono morti. Dobbiamo assumerci la responsabilità di chi è morto e dobbiamo garantire la sicurezza a chi è ancora in vita”. Il pezzo si intitola significativamente “dobbiamo risvegliarci da una storica tragedia”.
Come riporta il quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, sempre con la scusa della fabbrica del Jilin, centinaia di persone stanno condividendo il primo numero del primo giornale del Partito comunista cinese: Quotidiano di una carneficina. Era il 4 giugno del 1925, sono passati 88 anni. Ma le carneficine, pare, sono sempre attuali.
[Scritto per Lettera43; foto credits: ctvnews.ca]