Il 4 giugno 1989 è stato teatro della tragedia suprema: i padri che uccidono i propri figli per preservare il potere. Piazza Tian’anmen fu l’inizio di un ventennio di violenza contro la democrazia. Da allora l’Internazionale della repressione è l’unica sopravvissuta. Ma la memoria di quei giorni è un non-ricordo."Forse ci sono ancora dei bambini che non hanno mangiato uomini? Salvate i bambini...". È l’excipit di Kuangren Riji (in italiano Diario di un pazzo) di Lu Xun, parole che oggi riecheggiano cupe tra i vuoti della Porta della Pace Celeste. Un dubbio inevaso dal quale se ne generano altri.
Come può essere ammessa la salvezza in un mondo dove l’uomo mangia – letteralmente – l’altro uomo? Come è possibile estrarre dalla terra il bulbo infetto dal quale è fiorita la nostra società? Il padre della lingua cinese moderna, una delle menti più lucide nella storia della letteratura mondiale, a mezza bocca aveva lanciato il suo imperativo.
Forse erano pochi i bambini in piazza Tian’anmen ventiquattro anni fa, nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989, quando si consumò uno degli eventi basilari del nuovo corso cinese. Ma è proprio vero che i bambini erano assenti, quando l’esercito falcidiò donne e uomini per ristabilire l’ordine nel cuore della Cina comunista? Le cronache superstiti non ne fanno menzione, certo è che i figli erano assiepati a migliaia in piazza Tian’anmen.
La generazione che aveva visto i propri genitori soccombere alla rieducazione di massa nelle campagne, testimone bambino di una Rivoluzione Culturale mai davvero conclusa, nei giorni precedenti la strage aveva occupato pacificamente il centro del Potere politico cinese. Sotto gli occhi del mondo, per quasi due settimane, era andato in scena uno degli scioperi della fame più clamorosi che la storia ricordi.
Quanta confusione ingenera raccontare una storia accaduta in Cina, anche solo 24 anni fa? Moltissima, a dire il vero. Equivoci più o meno colpevoli, approssimazioni, il peso ingombrante di quel bagaglio esotista che ha da sempre segnato l’ordine del discorso sull’Estremo Oriente. Un vuoto epistemologico sembra impedire alla Storia di raccontarsi, quando si parla di Cina. Chi ricorda oggi i funerali di Hu Yaobang da cui tutto ebbe inizio? Chi potrebbe dire la commozione di Zhao Ziyang mentre implorava gli studenti di cessare lo sciopero della fame? Chi saprebbe indicare sulla cartina il punto in cui sorgono Muxudi e Xidan?Il dito corre sicuro sul centro di Pechino, perché lì – così qualcuno ha scritto – c’è stata la strage.
In quei giorni alcuni scultori realizzarono una statua con le fattezze di una donna che teneva alta nel pugno una fiaccola accesa, la Dea della Democrazia. Tutti dissero che la piazza intera guardava agli Stati Uniti quale modello ispiratore delle proprie urgenze. In pochi si preoccuparono di chiarire che forse il modello di quella creazione era da ricercarsi più nella Libertà della Poesia di Pio Fedi, collocata sul monumento funebre di Giovan Battista Niccolini in Santa Croce a Firenze, piuttosto che nell’opera di Bartholdi ed Eiffel che sempre a Fedi si rifaceva. Non a caso gli studenti avevano scandito a lungo lo slogan "Faremo di Tiananmen la nostra presa della Bastiglia". Nessuno ricorda più nulla.
"Siamo noi gli eredi del 4 maggio", avevano detto i leader della protesta, rivolgendo idealmente il loro pensiero più a Sun Yat-sen che a Mao Zedong nella lunga marcia verso la riconquista di uno stato di diritto. Tuttavia il passato e il presente sono morti a piazza Tiananmen. Dopo il 4 giugno del 1989, nella Cina di Deng Xiaoping – sommo manovratore di una svolta radicale, quella dell’economia socialista di mercato – è tornata al potere non la dittatura del proletariato, ma quella del futuro a ogni costo.
Un’intera generazione di cinesi per più di due mesi aveva chiesto ai padri (funzionari di partito, autorità locali, forze militari e di polizia), di ristabilire quell’ordine fondato su uguaglianza, regole condivise, meritocrazia, benessere per tutti. Non il benessere individuato dal logo della Coca Cola (come anche a casa nostra qualcuno avrebbe poi semplificato), bensì da quello spirito nazionale – profondamente cinese – che più di mezzo secolo prima aveva segnato il trapasso dall’Impero Qing alla Repubblica, prima che il Guomindang e in seguito il Partito Comunista Cinese vittorioso, se ne facessero unici detentori.
Allegoria crudele della Storia, piazza Tiananmen è stata teatro della tragedia suprema, quella che vede il padre uccidere il figlio per conservare il proprio potere. Uno dei tabù dell’umanità è stato infranto nella notte dei fucili puntati ad altezza d’uomo, dei carri armati che sfondano le microscopiche transenne messe a difesa delle tende issate nella piazza. Una dinamica che verrà secolarizzata nei decenni a venire quando, anche in Occidente, la generazione dei padri fagociterà quella dei figli, impediti nella loro età adulta a qualsiasi assunzione vitale, se non quella di ribellarsi, lottare, morire.
In un’epoca di Storia globale, in cui quella della repressione è l’unica vera Internazionale sopravvissuta agli stravolgimenti del tempo, un filo spesso e crudele lega la soppressione del Movimento Studentesco Cinese alle repressioni di piazza avvenute in seguito. Qualcosa si è incancrenito nel mondo sul finire del Novecento. La volontà di condurre fino agli ultimi esiti un piano lucido e definitivo per un nuovo ordine mondiale, ha eletto i fatti di piazza Tiananmen quale prefigurazione suprema di un ventennio di violenze contro la democrazia. Seattle, Praga, Napoli, Genova sono forse le tappe di un percorso iniziato con i morti di Pechino del 4 giugno 1989.
Ma cosa resta oggi dei fatti di allora? Piazza Tian’anmen è il grande rimosso della storia cinese recente, molto più dell’altrettanto tragica – almeno in termini di vittime – Rivoluzione culturale. Una rimozione chirurgica che rende difficile – a volte impossibile – la ricostruzione di quel contorto, turbinoso e plurale movimento che in piazza Tiananmen aveva trovato il suo centro. Una rimozione operata dal Demone della Prosperità, come il titolo del geniale romanzo di Chan Koonchung. I cinesi hanno smarrito, più o meno volontariamente, la memoria su quanto accaduto il 4 giugno 1989. La prosperità promessa dai dirigenti del PCC ne ha disintegrato il dissenso, compensandolo con una fase di benessere per pochi e di feroce disparità di classe, la stessa che connota la Cina odierna quale laboratorio di un modello sociale inedito, eppure arcaico nelle sue dinamiche.
Le fonti più affidabili per ricostruire il clima di quei giorni sono oggi le opere letterarie. Una per tutte il miracoloso Pechino è in coma del dissidente Ma Jian, pietra miliare della letteratura cinese contemporanea, in Cina prima censurato e poi proibito. Ma Jian e Chan Koonchung, due voci che pongono ai cinesi e al mondo le medesime domande: "Quale sarà la sorte delle vostre anime murate nella sordità dell’oblio? Può esistere un popolo senza memoria?".
Resta la Cina del denaro, una cultura preda di uno smarrimento generazionale senza precedenti. L’esito immediato della strage fu quello di sclerotizzare lo status quo, di mantenere immutata una stagione che vedeva ben salda al potere coloro che, a buon titolo, possono definirsi i padri della Cina contemporanea. Vittime sacrificali sull’altare del futuro, è impossibile enumerare i morti di quei giorni. Appena un centinaio secondo il Governo, almeno tremila dalle indagini condotte da Amnesty International. Morti per la maggior parte senza nome, i cui genitori, parenti prossimi, amici sono costretti al silenzio per non incorrere nei controlli ossesivi di una polizia invasiva.
Il 4 giugno in Cina è il giorno del non-ricordo. Non si possono condurre fiori sulle tombe dei caduti. Nessuno può fare riferimento a quanto avvenuto, e la piazza simbolo del centro politico della Cina (ex) comunista è controllata a vista, nel silenzio più teso che si possa immaginare. Qualcuno scrisse "Si è spento il sole su piazza Tiananmen". Oggi a Pechino il sole si è spento anche in senso meteorologico, celato sotto una coltre di polvere e fumo che non si dissipa mai.
Qui, dall’altra parte del mondo, sapremo solo nella giornata del 4 giugno cosa sarà accaduto in Cina in quel giorno, quali saranno state le manovre tese a censurare, nascondere, rimuovere. Quali espedienti informatici avrà attivato Sina Weibo? Quali servizi “alternativi” avrà mandato in onda la China Central Television? Quali e quanti mattoni comporranno la nuova Grande Muraglia che separa la Repubblica Popolare Cinese dagli occhi del mondo?
Rimane Lu Xun che aveva detto ai suoi connazionali, profeta inascoltato: "Salvate i bambini".
*Danilo Soscia è nato a Formia nel 1979. Studioso di letteratura di viaggio, vive e lavora a Pisa. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con Condòmino (Manni) e ha curato il volume In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo 1904-1999 (Ets). È stato anche redattore del quotidiano Pisanotizie.it.
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