Birmania – Wirathu, un monaco contro l’Islam

In by Gabriele Battaglia

Con la sua campagna ‘969’ starebbe infuocando lo scontro etnico-religioso nel paese del Nobel per la pace Aung San Su Kyi che arranca sulla strada per la democrazia. Lui però, U Wirathu, monaco buddhista di Mandalay, nega ogni responsabilità nei violenti scontri degli ultimi giorni.  Si definisce il ‘Bin Laden’ birmano U Wirathu, monaco buddhista di 45 anni di stanza al monastero di Masoeyein di Mandalay, seconda città della Birmania ed ex capitale del regno, da dove diffonde i suoi sermoni.

Secondo di otto figli, Wirathu frequenta la scuola fino all’età di 14 anni per poi indossare le vesti monacali. Appare calmo nelle sue stoffe dai colori caldi, tipici dei monaci buddhisti del sudest asiatico, e parla con un tono di voce pacato che tradisce il duro contenuto rivolto contro la comunità musulmana, di etnia Rohingya, in netta minoranza nel paese – circa il 5 per cento della popolazione. Wirathu conta inoltre una decina di migliaia di followers sulla sua pagina Facebook e i suoi video diffusi sulla piattaforma di YouTube sono visti da migliaia di utenti. Popolarità mediatica.

Sale sulla scena pubblica nel 2001, quando dà origine a un movimento nazionale molto simile a quello attuale, per il boicottaggio delle attività economiche gestite da musulmani. Nel 2003 viene incarcerato con una sentenza di venticinque anni per aver propagandato odio religioso che trascinò a rappresaglie anti-musulmane.

Tornato in libertà nel 2010 a seguito di un’amnistia generale, Wirathu ha poi dato il via alla sua campagna nazionalista, la ‘969’, attraverso cui ha continuato a incoraggiare la popolazione buddhista ad isolare gli esercizi commerciali musulmani, spesso marcando le loro case e i loro negozi con numeri legati al credo buddhista. L’atmosfera che si percepisce è quella di un apartheid venturo.

Nel settembre 2012 il monaco ha guidato un numeroso gruppo di monaci nella capitale, Naypyidaw, per difendere le intenzioni del presidente Thein Sein di spostare i Rohingya in un stato terzo. Nel mese successivo c’è un’ulteriore acuirsi delle tensioni tra le due comunità che hanno iniziato la loro violenta diatriba in giugno, facendo contare in meno di un anno circa 200 morti e centinaia di migliaia di sfollati, per lo più nei campi di rifugio allestiti sui confini col Bangladesh.

Recentemente gli scontri avvenuti nella città di Meikhtila tra il 20 e il 22 marzo di quest’anno hanno visto sotterrare ben 42 corpi, la maggior parte dei quali di etnia Rohingya. Anche se in un’intervista all’Irrawaddy Wirathu ammette di essere stato presente agli scontri, smentisce ogni tipo di coinvolgimento o incitamento alla violenza. In questo caso gli scontri sarebbero degenerati da un diverbio sull’acquisto di oro di un commerciante di fede islamica da una coppia buddhista.

Nei nostri sermoni parliamo inoltre di ragazze che involontariamente e miseramente seguono l’Islam dopo essere state convertite con la forza, rischiando di essere uccise qualora non si attenessero alle sue istanze. Se così non fosse esse sono torturate fino alle lacrime” dice Wirathu in un’intervista al Guardian e aggiunge “I musulmani locali sono crudeli e impietosi perché gli estremisti li stanno manovrando, fornendo loro potenza finanziaria, militare e tecnologica”, facendo riferimento ai paesi del Medio Oriente.

C’è chi invece d’altra parte lo accusa di essere lo strumento dei generali più anziani a cui poco garbano i progressi che si stanno avendo nella costruzione della democrazia. “Non lavoro per nessun partito, organizzazione o persona, questi sono solo le cose in cui credo e le mie speculazioni” si difende.

Molte le critiche rivolte alla leader dell’opposizione birmana e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi che ha assunto una posizione debole sulle violenze etniche che sono scoppiate in Birmania dall’allentamento della dittatura militare. Dal Giappone la leader del Ndl (National Democracy League) commenta, “Io non sono un mago. Se lo fossi stato avrei giusto detto ‘scomparite’ e tutti i conflitti sarebbero scomparsi. Le differenze richiedono molto tempo per essere riordinate” e sottolinea l’importanza dello instaurare un’atmosfera di sicurezza in cui “persone con opinioni differenti possano sedersi e scambiarsi idee e pensieri sulle cose che hanno in comune”.

L’attivista birmano e ricercatore della London School of Economic Maung Zarni sottolinea che “nessun paese europeo avrebbe tollerato incitazioni all’odio se queste fossero state fatte a scapito degli ebrei” e quindi si chiede “perché l’Europa non dovrebbe prenderlo sul serio (Wirathu, ndr) quando la Birmania è uno dei paesi che attrae più aiuti da questa?”.

Al riparo dagli sguardi dei paesi occidentali continua il conflitto tra i Kashin e i governativi nel Nordest del paese, che ha quantomeno catturato l’interesse della Cina mettendo in pericolo gli stabilimenti cinesi sul confine, in particolare impianti di estrazione mineraria e centrali idroelettriche. L’organizzazione non governativa internazionale Human Right Watch ha più volte sottolineato la violazione di numerosi diritti umani, la difficile condizione in cui vive la popolazione civile e ha denunciato i crimini commessi da entrambi gli schieramenti.

La nazione birmana verte in circostanze delicate, compressa tra conflitti etnici molto spesso violenti e un sistema amministrativo che solo ora, con molta timidezza, si prolunga verso la democrazia. Gli sforzi nel varare le riforme economiche e nell’alleggerimento della stretta sui dissidenti politici rischiano di perdere lo slancio nella forte instabilità ventura, favorita da una sicurezza insufficiente e dall’appoggio più o meno esplicito a personalità come Wirathu, che trovano orecchie più disposte ad obbedire in momenti di precaria sopravvivenza.

[Foto credits: guardian.co.uk]

*Alberto Sperindio studia lingua e cultura cinese presso l’Università di Napoli “L’Orientale”. Collabora con alcune testate online quali Il Levante e Onda Libera Magazine.