Dragonomics – L’urbanizzazione cinese

In by Simone

Il nuovo premier Li Keqiang ne parla un giorno sì e l’altro pure, è la grande scommessa per trasformare un immenso popolo di produttori in un gigantesco mercato di consumatori. Un’urbanizzazione che non è chengshihua, bensì chengzhenhua: dalla megalopoli alla città sostenibile, la grande sfida di Pechino.

Il tassista si lamenta: “Troppa gente, troppo traffico, troppo smog. Il governo non dovrebbe più dare permessi per comprare automobili”. Il sospetto è che stia tirando acqua al suo mulino, ma forse ha ragione. La popolazione di Pechino ha raggiunto 20,6 milioni di abitanti e cresce di circa 600mila persone ogni anno. Ci sono 5,2 milioni di veicoli che diventeranno 6,5 milioni nel giro di cinque anni. La fonte di questi numeri non è una a caso: Wang Anshun, sindaco della capitale.

Oggi invece è giorno di shachenbao, tempesta di sabbia. Il cielo è giallo e il percorso in bicicletta sull’asse nord-sud è una lotta contro gli elementi; ma ancora peggio è la via di ritorno, perché controvento. Obbligatoria la mascherina ipertecnica, un genere ormai in odore di bolla speculativa più dell’immobiliare. Sull’abituale social network qualcuno osserva quasi sollevato che “questa non è opera dell’uomo e il vento spazzerà via tutto verso sud-est”. Pronta la risposta di un altro: “Le tempeste di sabbia sono generate dalla propagazione di terra degradata verso Pechino, a causa della siccità e del riscaldamento globale. Sono opera nostra, altroché”.

Nonostante l’inedita congiura antiumana di sabbie più o meno naturali e polveri sottili antropogeniche (le seconde viaggiano a cavallo delle prime), nonostante i numeri del sindaco, la Cina punta su un enorme processo di urbanizzazione per costruire un proprio futuro più “equilibrato”. Nei prossimi dieci anni, saranno investiti 40mila miliardi di yuan (5mila miliardi di euro) per attirare 400 milioni di abitanti rurali in città. Li Keqiang, il nuovo numero due della leadership cinese, ne parla un giorno sì e l’altro pure.

Dove sta l’inghippo? Possibile che i leader cinesi vogliano ingrandire ulteriormente le megalopoli ipertrofiche?

 
Chengzhenhua
La risposta è forse proprio nella parola “urbanizzazione”. Il vicesegretario e premier Li non utilizza infatti il termine chengshihua, bensì chengzhenhua. Dato che chengshi sono le metropoli e chengzhen gli agglomerati più piccoli, l’urbanizzazione su cui punta la nuova leadership sembrerebbe quindi riguardare le città minori. Le varie Pechino, Shanghai, Chongqing potrebbero finalmente respirare.

È un modello che rispecchia tendenze globali. Karen Seto, docente di Urban Environment all’Università di Yale, ci dice che “la maggior parte delle città del futuro non saranno megacity – cioè agglomerati tra i 5 e 10 milioni di abitanti – bensì città di media grandezza, tra uno e cinque milioni di abitanti. Sorgeranno soprattutto in Asia, specialmente in Cina e India, dove avremo circa 700 milioni di nuovi individui urbanizzati nei prossimi 40 anni”.

Perché urbanizzazione?
Il governo cinese punta sull’allargamento della popolazione urbana perché vuole trasformare la propria economia, renderla più bilanciata. Il grande boom del Dragone è stato foraggiato per trent’anni dalle manifatture votate all’export, nelle quali lavorano milioni di lavoratori migranti espulsi dalle campagne e disponibili come forza lavoro a basso costo.
Oggi i tempi sono cambiati: di fronte alla contrazione della domanda estera e alla crescente (e destabilizzante) diseguaglianza interna, bisogna trasformare gli ex contadini proletarizzati in un nuovo ceto medio soddisfatto e assetato di consumi. È la creazione del famoso mercato domestico che dovrebbe rendere la Cina moderna, potente e autosufficiente.

Il primo obiettivo – dicono a Pechino – è raggiungere i livelli di urbanizzazione dell’Occidente. Nel 2011, fatto inedito nella millenaria storia cinese, la popolazione cittadina ha superato quella rurale: 51 per cento a 49. In Occidente, la prima oltrepassa da decenni l’80 per cento del totale.
Alla città e ai suoi ceti produttivi sono collegati i servizi avanzati, l’istruzione, lo scambio continuo di informazioni, e quell’innovazione di cui la Cina ha bisogno come dell’ossigeno. 
Il modello di riferimento un po’ per tutti è New York – aggiunge Seto – la “città” per definizione: “Attira investimenti, è la capitale finanziaria degli Stati Uniti e del mondo, tutte le grandi corporation mondiali vi hanno una sede. L’amministrazione locale può intercettare parte di queste risorse per rendere la città vivibile. Di conseguenza si crea anche nuovo capitale umano e la metropoli diventa sempre più innovativa e creativa, producendo ulteriore crescita economica. Un circolo virtuoso”.
L’urbanizzazione come driver della crescita. Ma riuscirà la Cina a ricreare quel circolo virtuoso?

I problemi principali riguardano la governance del territorio.

Larghi o stretti
Il primo c’entra con la densità della città, cioè con la scelta di concentrare due milioni di persone (ipotizziamo) in cento o in mille chilometri quadrati. Altrimenti detto: meglio stare larghi o stretti?
“Se milioni di persone vivono in città a bassa densità – cioè più estese geograficamente a parità di abitanti – verrà consumato tantissimo ambiente circostante: terra coltivabile, pascoli, riserve naturali”, spiega ancora Karen Seto. “Ma, d’altra parte, se le persone si concentrano in aree ad alta densità, avremo altre conseguenze, come la difficoltà a gestire lo spazio urbano e gli alti livelli di inquinamento. Ci vuole un compromesso tra i due modelli”.

I 62,5 chilometri quadrati del centro di Pechino sono tra i più densi del mondo: oltre 26mila abitanti per chilometro quadrato. Napoli, che è la città più densa d’Italia, ne ha circa 8mila. Il progetto iniziato nel 2005 per decongestionare l’area centrale della capitale cinese, quella all’interno del secondo anello, punta a ridurre la popolazione da 1,65 milioni a circa 900mila. Si scontra però con problemi come la distruzione del patrimonio architettonico e la “deportazione” dei residenti verso gli anelli esterni, con conseguente perdita del tessuto sociale che rende Pechino unica.
Considerato che dei 20,6 milioni di abitanti dell’intera capitale cinese, oltre 7 milioni e mezzo sono migranti (cioè il 37 per cento, dati ufficiali), la scelta di puntare sull’urbanizzazione di più città non troppo grandi sembrerebbe azzeccata: potrebbe offrire ai mingong (migranti) l’opportunità di cercare fortuna in centri più vicini al loro luogo d’origine, decongestionando così le megacity.

Controllo sociale
Il secondo problema di governance riguarda il controllo sociale.
Jeremy Wallace, docente di scienze politiche alla Ohio University ha analizzato i 436 “regimi non democratici” del dopoguerra (l’alto numero si deve al fatto che, in base al metodo della ricerca, uno stesso Paese può essere passato attraverso più “regimi” se non c’è stata continuità di leadership: ad esempio, Chiang Kai-shek e Mao Zedong sono contati separatamente).

“Per i 237 regimi con livelli di concentrazione urbana al di sopra della media – sostiene Wallace – la durata media è di 8,6 anni e il tasso di mortalità è del 9,2 per cento. Per i 199 regimi caratterizzati da bassi livelli di concentrazione urbana, il tasso è solo del 5,6 per cento e la durata media di 12,4 anni. Regimi con città-capitali enormi e in posizione dominante crollano in media quasi quattro anni prima e hanno una mortalità superiore del sessanta per cento”.
Divide et impera: più città di media grandezza e meno megalopoli dove le pressioni sociali e anche le possibilità di organizzazione aumentano. Del resto, è intuitivo che sia più facile portare in piazza centomila persone dove ne vivono dieci milioni che dove ce ne stanno due.

Uguaglianza
Il terzo problema è sociale.
Sun Xiliang, docente all’università Zhongnan di Changsha nonché attivissimo blogger e microblogger ha nei giorni scorsi fatto circolare un post nel quale identificava tra i principali problemi del mondo rurale proprio “l’inurbamento (shiminhua) dei contadini”, perché “può facilmente finire male”. Non è la previsione di una Cassandra qualsiasi, ma il riassunto di ciò che è già successo: i 200 milioni di migranti dalle campagne che attualmente lavorano in città sono infatti cinesi di serie B.

Il motivo si riassume in una parola: hukou. È la residenza obbligatoria che vincola i diritti dei cinesi alla propria località d’origine. Dato che è registrato altrove, il contadino che va a Shanghai o Pechino per fare il manovale, non può accedere a sanità, istruzione e assistenza sociale. O meglio: se sta male, se vuole dare un’educazione ai figli, è costretto a mettere mano al portafogli. 
Negli ultimi giorni i media hanno riportato ampiamente il problema dei “bambini lasciati indietro”. Sono i figli di migranti che si trovano davanti a due prospettive analogamente penalizzanti: restare nei villaggi d’origine con i nonni, rinunciando alle cure dei genitori; oppure seguire questi ultimi in città senza avere accesso alle stesse opportunità degli altri bambini. In entrambi i casi si tratta di discriminazione e riproduzione della stratificazione sociale.

L’hukou, che in origine doveva evitare migrazioni bibliche e incontrollabili della popolazione cinese, oggi non solo è ingiusto, ma anche inefficiente. Come faranno infatti i mingong a trasformarsi in ceto medio consumista se devono spendere tutto in scuole per i figli, affitti e ricoveri ospedalieri?
Se ne parla da anni e alcune città applicano già la possibilità di ottenere un hukou a punti, ma l’urbanizzazione sostenibile non può prescindere da una radicale riforma del sistema.

Il tema è stato rilanciato dall’ex premier Wen Jiabao nel suo intervento all’assemblea nazionale del popolo, mentre circolano proposte di un hukou “metropolitano”, che dia cioè la residenza in aree più estese ed economicamente omogenee (come i nostri distretti industriali, per capirci): con i loro 50 milioni di abitanti complessivi, Shenzhen, Guangzhou, Dongguan, Foshan, Zhongshan e Zhuhai, le sei città industriali nel delta del fiume delle Perle, potrebbero essere il primo luogo di sperimentazione.

Infine c’è chi spera che la parola “popolazione fluttuante”, che designa i mingong, diventi semplicemente obsoleta nel giro di pochi anni per ragioni economiche.
Ma Xu, un delegato pechinese all’assemblea del popolo, ha auspicato che il ribilanciamento dell’economia verso i consumi interni di un nuovo ceto medio diffuso sia accompagnato da progetti di sostegno economico e culturale agli ex migranti, “per incoraggiarli a crearsi un’attività lavorativa in proprio” e senza bisogno di andarsene lontano da casa.

Un miliardo di partite Iva: anche questa è urbanizzazione sostenibile alla cinese.

[Scritto per Linkiesta.it]