Ora i lavori possono ricominciare

In by Gabriele Battaglia

Da mesi la Wanbao Mining, azienda cinese che opera nell’estrazione di rame nel Myanmar nordoccidentale, ha interrotto i lavori dopo le proteste della popolazione locale. Il governo birmano ha dato il via alla ripresa dei lavori. Anche perché la comunità cinese in Birmania è sempre più ricca e influente. La Wanbao Mining Ltd è un’azienda mineraria cinese che ha investito oltre un miliardo di dollari nel progetto di una miniera di rame nella regione nordoccidentale del Myanmar. I lavori per la miniera erano stati interrotti a novembre del 2012 a seguito delle proteste della popolazione represse con la forza dal governo.

Ma da ieri un comunicato ufficiale del governo birmano – opera di una commissione d’inchiesta presieduta dalla leader di opposizione e premio Nobel Aung San Suu Kyi – permette all’azienda cinese di proseguire i lavori mentre chiede fermamente che i poliziotti che si sono resi complici della brutale repressione delle proteste vengano puniti.

Il Global Times, quotidiano in lingua inglese molto vicino alle posizioni del Partito comunista cinese, riporta con entusiasmo la notizia in prima pagina: “le indagini della miniera in Myanmar possono continuare”. E spiega che l’azienda cinese Wanbao sta lavorando assieme all’azienda birmana Myanmar Economic Holdings Ltd e che entrambe hanno promesso di prestare ascolto alle esigenze delle comunità locali e di comunicare per tempo al parlamento birmano “ogni singolo passo in avanti del progetto”.

Il sito della miniera di rame in questione è quello di Letpadaung, nelle vicinanze della città di Monywa. Si tratta della miniera di rame più grande della Birmania i cui lavori erano stati sospesi dal governo birmano a seguito delle violente manifestazione di protesta dello scorso novembre.

Chi si opponeva al progetto denunciava che i lavori della joint venture sino-birmana avevano causato problemi ambientali e sociali nell’area, a cominciare dall’esproprio forzato di 7800 acri di terra con conseguente trasferimento delle popolazioni che vi abitavano. Inoltre, facevano notare i manifestanti, l’azienda cinese è una controllata della Norinco (azienda che in Cina produce armi) e quella birmana fa parte di un conglomerato di aziende che fa riferimento proprio al’ex giunta militare.

In quell’occasione il governo birmano aveva represso le proteste della popolazione locale con la forza. Sono documentati l’uso di idranti, lacrimogeni e addirittura di bombe al fosforo. 50 persone erano state gravemente ferite e tra questi molti monaci buddhisti. Era la prima volta da quando i riformisti avevano preso il potere nel marzo 2011 guidati da Thein Sein e l’opinione pubblica, che usciva da quasi cinquant’anni di giunta militare, era rimasta attonita. La presidenza di Thein Sein era infatti stata accolta come un atto di liberazione e la sua amministrazione aveva già rilasciato centinaia di prigionieri politici e si era distinta per aver lasciato più spazio a scioperi e manifestazioni.

Thwe Thwe Win, un leader della protesta, ha dichiarato ieri che le manifestazioni non avrebbero tardato a riprendere. Secondo il suo comunicato la situazione è “inaccettabile” e nel documento uscito dalla commissione d’inchiesta presieduta da Aung San Suu Kyi "non c’è alcuna clausola che punisce chi ha ordinato la violenta repressione".

Il premio Nobel si è recata stamane nelle zone della miniera, 450 km a nord di Rangoon, per incontrare i manifestanti. Ha spiegato le motivazioni che hanno portato la commissione d’inchiesta da lei presieduta a stilare un rapporto in cui si affermava che il progetto di estrazione del rame non doveva essere interrotto, nonostante si sia riconosciuto che le aziende in questione non avevano previsto nessuna misura di protezione ambientale, né si erano preoccupate di creare posti di lavoro per la popolazione locale.

E’ stata accolta, sottolinea il magazine Irrawaddy da un’ondata di proteste. "Le conclusioni della commissione d’inchiesta vanno contro la popolazione. E’ per questo che manifestiamo", ha spiegato un partecipante. sempre nel documento conclusivo rilasciato ieri si legge infatti che “la demolizione la miniera potrebbe creare tensioni con la Cina e potrebbe quindi scoraggiare i tanto necessari investimenti esteri”.

In effetti, tra le potenze del XXI secolo, solo la Cina ha saputo approfittare dell’isolamento della Birmania dalla comunità internazionale. Negli ultimi vent’anni si è assicurata i suoi interessi strategici costruendo autostrade, ferrovie, porti e gasdotti. E la comunità cinese in Birmania è numerosa e ricca. I tayoke, come li chiamano, sono presenti nella regione sin dal XVIII secolo. Ma le migrazioni più imponenti sono avvenute solo negli ultimi cent’anni.

Incoraggiate dai britannici prima, e successivamente come effetto della guerra civile cinese che ha visto opporsi il Guomindang al Partito comunista. Oggi ci sono almeno un milione e seicentomila cinesi che hanno ottenuto la cittadinanza birmana e oltre due milioni di immigrati.

La stessa Suu Kyi si era sentita in dovere di affrontare in campagna politica la questione. "Ho sentito che uomini d’affari e mercanti cinesi sono stati minacciati. Gli è stato detto che, poiché abbiamo strette relazioni con i paesi occidentali, i loro affari sarebbero stati danneggiati se il nostro partito avrebbe vinto". Ma non è vero, ha rassicurato. E ha fatto tradurre i suoi slogan elettorali anche in cinese. I rapporti con i cinesi sono infatti delicati.

L’unico caso in cui il Myanmar si è opposto alla volontà della Repubblica popolare è stato quello della diga di Myitsone, un’opera colossale vicino alla foce del fiume Irrawaddy, in grado di fornire da subito una considerevole quantità di energia alla vicina regione cinese dello Yunnan in cambio dei soldi di Pechino.

Nell’autunno 2011 la società civile insorse portando migliaia di manifestanti nella capitale, Aung San Suu Kyi gli fece da megafono e alla fine il presidente Thein Sein, ne ordinò l’immediata sospensione dei lavori

[Scritto per Lettera43; foto credits: straitstimes.com ]