Dragonomics – Qualità vs corruzione

In by Andrea Pira

Oggi niente numeri, statistiche o analisi strettamente economiche, bensì alcuni spunti di riflessione su una delle contraddizioni fondamentali della Cina odierna: il Dragone ha bisogno di produzioni ad alto valore aggiunto, innovative. Ma può la qualità farsi strada in un contesto segnato dall’opacità della corruzione? Può la qualità coesistere con la corruzione? Domanda apparentemente assurda o mal posta, ma fondamentale per sciogliere il nodo della matassa cinese.
Il Dragone si trova a metà del guado: non può più reggersi su un’economia che produce merci a buon mercato e scarsamente innovative ma, al tempo stesso, difetta ancora della qualità necessaria per competere sui prodotti ad alto valore aggiunto.

Le ragioni sono molteplici: tra le altre cose, l’inefficacia del sistema scolastico e i troppi vincoli posti alla libera circolazione delle idee, humus assolutamente necessario per liberare tutte le potenzialità economiche dell’economia della conoscenza.
Tuttavia la quantità numerica, ancora una volta, giungerebbe in soccorso del sistema Cina. Gli studenti cinesi che “liberano” il proprio pensiero all’estero (e anche in patria) sono ormai tantissimi, vera avanguardia creativa del Dragone.
Oggi però questa avanguardia dell’innovazione (e speranza per il sistema Cina) si scontra con un ostacolo quando entra nel mondo delle professioni: la corruzione.

Xiaojing
fa parte di in un grande studio di architettura. Ha studiato all’Accademia Centrale di Belle Arti di Pechino, poi ha lavorato in Francia e Svizzera, collaborando con grandi “archistar” internazionali e tornando in patria con una competenza professionale che, dopo alcuni anni da freelance alle prese con progetti comunque colossali, le ha aperto le porte di Turen: quattrocento persone ospitate dentro l’Università di Pechino, perché il fondatore dello studio – che date le dimensioni sarebbe forse meglio chiamare “fabbrica” – è anche capo del dipartimento di design dell’istituto.

È tornata con una missione: trasformare il suo Paese.
Il suo pallino è la qualità, che è qualcosa tremendamente difficile da far capire. Non è “soldi”, non è “gigantismo”, non è “vetri e luci scintillanti”, non è insomma tutto ciò che violenta il paesaggio cinese.

Lei ama lavorare con i materiali poveri, naturali. Lei è taoista, si ispira al movimento dello yin e dello yang e al fluire dell’acqua.
Turen nasce come studio di architettura di paesaggio, cui si sono aggiunte altre sezioni. Grazie alla natura in parte accademica, i suoi progetti non devono passare dalle forche caudine dei design institute, le agenzie che approvano e modificano i lavori degli architetti “normali” (cinesi e stranieri) spesso stravolgendoli per ragioni che di architettonico (e qualitativo) hanno poco e di politico hanno invece molto.

Turen
sceglie solo clienti “qualitativi”: quasi sempre i governi locali che, quando si tratta di investire per dare lustro a loro stessi, stanno attenti ai particolari. Così si affidano a uno studio che non fa sconti: quel ponte si fa così, per quell’argine di fiume ci vogliono quelle pietre particolari, figlie del fiume stesso, e guai a mettere una balaustra di simil-capitelli corinzi.
Quanto ai developer, i famigerati palazzinari che stanno rendendo la Cina un’enorme periferia urbana dai volumi ipertrofici, Turen sceglie solo quelli che “capiscono”. Se lo può permettere.

Così, pensa Xiaojing, il suo lavoro diventa anche una missione: gradualmente, attraverso un processo top-down, l’idea di qualità si fa strada. L’alleanza tra un’elite intellettuale cosmopolita e il potere politico vince l’inerzia.
Certo, dice lei, esiste la corruzione. Tutti lo sanno. Così, per sua stessa ammissione, lei perde visibilità sul suo progetto quando passa alla fase esecutiva. Decide il governo che l’ha commissionato o il costruttore. E non sempre, anzi quasi mai, il design proposto inizialmente, con una sua coerenza interna, ne esce intatto.

Mostra i disegni di un futuro centro termale nel Jiangxi, ne magnifica gli aspetti qualitativi. L’acqua scorrerà in pozze successive già esistenti grazie alla pendenza naturale, l’intervento umano sarà minimo. Attorno a un laghetto, verranno costruite case alte al massimo due piani. Compare l’immagine di un canale sulle cui rive costruzioni diverse tra loro ma omogenee nella veduta d’insieme ricordano Amsterdam o Stoccolma (perché non Suzhou? E qui si apre il capitolo enorme del perché i progettisti cinesi vadano spesso a pescare nei riferimenti culturali occidentali invece che nei propri, ma ci dilungheremmo troppo).
A margine, sono indicati i materiali: legno, tegole di cotto cinese, pietra, ancora legno. Xiaojing anticipa che “forse non sarà costruito proprio così, però io ho fatto del mio meglio”. Ma tra il suo meglio e “forse non sarà proprio così”, passa proprio la differenza tra la pretesa qualità e l’ennesimo baraccone che appesta il territorio.

Guai, tuttavia, a obiettare. Perché lei si risente: “Voi (giornalisti? Occidentali? Entrambe le cose?) vedete le cose troppo direttamente. O è così o non è così. Noi invece abbiamo bisogno di incoraggiamento, non di critiche. Sappiamo benissimo che è difficile, ma se ci lamentassimo sempre non combineremmo nulla”.

Per lei la spinta graduale che arriva dall’alleanza non dichiarata tra giovani professionisti cosmopoliti (come lei), accademia, potere politico (quello dei funzionari “illuminati” che gradualmente passano dalla parte della “qualità”) può trasformare le cose impercettibilmente ma ineluttabilmente, alla maniera cinese. Basta convincere quelli che oggi preferiscono ancora una balaustra simil-corinzia a un muretto di pietra del fiume. Ma del resto sono gli stessi che si lasciarono convincere da Deng Xiaoping a passare dalla blusa di Mao Zedong al completo da manager nello spazio di pochi anni, nulla è impossibile.

Così, noi osservatori stiamo a disquisire sulla contraddizione tra bisogno di qualità e buco nero della corruzione – che la qualità inghiotte – e intanto le cose cambiano impercettibilmente sotto al nostro naso. Ce ne accorgeremo solo a processo concluso e a quel punto proveremo forse la fastidiosa sensazione di aver parlato del nulla: anche la contraddizione evaporerà è, forse, ci ritroveremo a parlare di un nuovo miracolo cinese. Questa, ovviamente, è la migliore ipotesi.

“Solo se le capacità di tutti i membri del partito continueranno incessantemente a rafforzarsi, l’obiettivo dei ‘due 100 anni‘ [oltrepassare il centesimo anniversario della Repubblica Popolare, che sarà nel 2049, ndr] e il sogno del ‘grande ringiovanimento del popolo cinese‘ possono realizzarsi”,"ha detto ieri Xi Jinping all’inaugurazione dell’annuale doppia sessione del parlamento cinese. “I leader e i funzionari devono studiare la raffinata cultura tradizionale cinese … che contiene vasta conoscenza e profonda erudizione”.

Un monito a evolvere qualitativamente “secondo caratteristiche cinesi”. E fa niente se il neoleader lo fa per amore della Cina o per restare in sella, con tutto il Partito. Non è quello il problema. Basta che le cose cambino, impercettibilmente.