Giappone – Gli Ainu visti da Maraini

In by Gabriele Battaglia

"Ainu. Antenati, spiriti e orsi", a Torino fino al 3 marzo, mette in mostra gli scatti di Fosco Maraini in Hokkaido, Giappone settentrionale. Una serie di istantanee che riporta in vita riti sepolti sotto secoli di storia ufficiale. E ci conduce alla (ri)scoperta di uno dei popoli più misteriosi e dimenticati del nostro pianeta.  A cento anni dalla sua nascita, il Museo della Montagna di Torino ripropone alcune delle opere fotografiche più rappresentative di Fosco Maraini, scrittore, antropologo, fotografo, e orientalista fiorentino. Istantanee – corredate da un documentario – che ci trasportano in una terra remota, l’isola di Hokkaido, all’estremo Nord del Giappone, e ai suoi antichi abitanti, gli Ainu.

A chi gli chiedeva che cosa fosse, in che lavoro si identificasse, in quale “mare gettasse le proprie reti”, Fosco Maraini rispondeva di sentirsi “cosciente” e talora “vergognoso” della sue fin troppe attività. Tuttavia, a fare da baricentro tra le sue diverse anime qualcosa c’era. E stava proprio nel “sapersi e sentirsi Citluvit”.

“Citluvit sta per Cittadino-Luna-Visita-Istruzione-Terra…è un tipo…al quale è stata data una borsa di studio con poche semplici istruzioni: vai, stacci a lungo in Terra, fattene un’idea, vedi di capirci qualcosa”. Finché, di quella Terra, il cittadino della metaforica Luna non finisce inevitabilmente per innamorarsi.

Il Citluvit è la sintesi perfetta del lavoro che Maraini condusse per tutta la vita come antropologo e studioso di Paesi di cui, in Italia, prima degli anni ’30, ben poco si sapeva. Egli indaga con “i mezzi più svariati”, con la consapevolezza di dover arrivare in fondo al proprio lavoro con tutto il materiale per una non meglio specificata “Gran Relazione” da presentare al ritorno al suo satellite di provenienza.

In questo senso la fotografia divento strumento necessario“carpire luoghi, avvenimenti, ore, colori, genti, situazioni, odi, amori, preghiere”; ma, soprattutto, riferiva lo stesso Maraini, mezzo per afferrare “in modo particolarmente vivido i segreti di una persona, d’un momento, d’una meteora, d’un evento, d’un paese, d’un popolo”.

La fotografia per rappresentare l’anima delle persone e delle loro culture, quella condizione umana che il Citluvit tanto “s’adopera per comprendere”. Un esperimento tentato in Tibet a seguito di Giuseppe Tucci e portato al suo massimo in Giappone.

Non è un caso che l’attenzione di Maraini fotografo si concentri proprio sui volti che infatti sono soggetto principale di “Ainu. Antenati, spiriti e orsi”. A cominciare dagli ekashi – gli anziani dei villaggi e custodi delle tradizioni Ainu – levigati dal freddo pungente e contornati da folte barbe. Sono visi ed espressioni di questa popolazione “bianca” di ceppo centro-asiatico, scattate tra il 1939 e il 1954, in occasione del "sacro invio" dell’orso – iyomande, in lingua Ainu – un rito sacrificale fondamentale nella tradizione di questa minoranza del Giappone settentrionale.

In origine cacciatori di orsi e pescatori, gli Ainu furono prima assimilati tramite politiche sociali di integrazione forzata tra “i sudditi dell’Imperatore” e poi, più di recente, dimenticati per ragion di Stato. Solo nel 2008 hanno ottenuto il riconoscimento dal governo di Tokyo come “popolazione indigena”; ancora oggi però, sostengono le associazioni di tutela della minoranza, i giapponesi di origine Ainu, che sarebbero circa 300 mila in tutto, sono vittima di discriminazioni.

“Coloro che scompaiono”, così Chiri Yukie descriveva il suo popolo a inizio Novecento. In seguito alla kaitaku, letteralmente all’"apertura” della remota isola di Hokkaido,  il governo di Tokyo aveva avviato politiche allo scopo di imporre anche agli Ainu il giapponese come lingua nazionale e il culto imperiale come unica religione. i giapponesi dello Honshu, l’isola principale dell’arcipelago nipponico, si fecero "civilizzatori" delle popolazioni dell’estremo nord, mentre gli Ainu vennero bollati come dojin, “selvaggi”. Una vera e propria colonizzazione che, con sotto le spoglie di missione civilizzatrice, aveva privato questa minoranza degli spazi naturali indispensabili alla sua sopravvivenza.

La stessa Chiri, che aiutò un linguista di Tokyo a tradurre in giapponese le storie del suo popolo, raccolte in un’antologia intitolata I canti degli dei degli Ainu, fu vittima della “nipponizzazione”. Ma allo stesso tempo riuscì ad aggirarla perpetuando in qualche modo una tradizione che rischiava di scomparire in nome di una omogeneizzazione culturale imposta da Tokyo. 

Come l’abilità linguistica di Chiri riuscì a salvare i testi della sua tradizione per i giapponesi, così l’obiettivo di Maraini salva gli Ainu dall’oblio dell’Occidente. E testimonia – e ancor di più testimoniava all’epoca degli scatti – che quanto poteva essere considerato “primitivo”, era in realtà frutto di secoli se non millenni di tradizione, che le politiche del governo di Tokyo avevano tentato di sradicare.

Tuttavia, le perdite sono state irreparabili. E anche degli scatti dello studioso traspare il senso di forte nostalgia“La natura rimasta vergine sin dai tempi antichi – scriveva Chiri nella prefazione all’Antologia dei canti rituali degli Ainu – è appassita senza che noi ce ne rendessimo conto…Quei pochi di noi Ainu che rimangono guardano a occhi spalancati con sorpresa, mentre il mondo avanza…Coloro che scompaiono – questo il nostro nome; che nome triste portiamo.”

La mostra "Ainu. Antenati, spiriti e orsi" è aperta fino al 3 marzo al Museo Nazionale della Montagna di Torino.

[foto credits: firenze.repubblica.it]

*Marco Zappa nasce a Torino nel 1988. Fa il liceo sopra un mercato rionale, si laurea, attraversa la Pianura padana e approda a Venezia, con la scusa della specialistica. Qui scopre le polpette di Renato e che la risposta ad ogni quesito sta "de là". Va e viene dal Giappone, ritorna in Italia e si ri-laurea. Fa infine rotta verso Pechino dove viene accolto da China Files. In futuro, vorrebbe lanciarsi nel giornalismo grafico.