La scorsa settimana le maggiori sigle sindacali indiane hanno indetto uno sciopero nazionale di due giorni. I lavoratori vogliono migliori politiche occupazionali e un aumento del salario minimo, fermo a 40 euro. La folla, a Noida, ha devastato 500 fabbriche e decine di automobili.
Doveva essere uno sciopero imponente, centinaia di milioni di lavoratori che avrebbero bloccato le attività produttive ed il traffico delle principali megalopoli indiane. Ma i due giorni di bandh (sciopero, in hindi) indetti la scorsa settimana dalle principali sigle sindacali del Paese – 11 sindacati maggiori e svariati sindacati minori – sono in realtà stati un grande flop.
L’adesione è stata massiccia in Kerala, Stato dell’India meridionale tradizionalmente “a sinistra”, dove i disagi hanno interessato ogni aspetto della vita di tutti i giorni: trasporti paralizzati, serrande chiuse, istituti bancari e servizi dello stato sospesi.
Ma nel resto della democrazia più grande del mondo lo sciopero del 20 e 21 febbraio ha avuto conseguenze risibili rispetto agli scenari apocalittici paventati dai leader sindacali indiani a pochi giorni dalla serrata.
“Escluse le ferrovie ed il traffico aereo” aveva dichiarato il 19 febbraio Bajntah Rai, segretario generale del sindacato nazionale Bharatiya Mazdoor Sangh (Bms), “tutti gli altri settori sono stati mobilitati per lo sciopero”.
E se effettivamente il trasporto su rotaia e gli aerei hanno passato indenni questi due giorni di chiusa, i disagi nelle metropoli sono stati marginali, specie al nord, dove i cittadini della capitale Nuova Delhi hanno lamentato principalmente difficoltà nel trasporto pubblico, ma poco altro.
A Mumbai, il secondo giorno in particolare, gli sportelli bancomat risultavano prosciugati, effetto dei ritardi burocratici innescati dallo sciopero nel settore bancario. Insomma, nulla a che vedere con lo sciopero dello scorso anno sostenuto dai partiti dell’opposizione per contrastare l’apertura del mercato indiano alle multinazionali della rivendita al dettaglio (Wal-Mart e Tesco), parte delle politiche "neo-liberiste" del premier Singh.
I sindacati, che incontreranno prossimamente i rappresentanti del governo, chiedono misure per il contenimento dell’inflazione, nuovi posti di lavoro, previdenza sociale estesa a tutti i lavoratori e, in particolare, l’innalzamento del salario minimo a 10mila rupie al mese (meno di 140 euro). Attualmente il salario minimo nazionale, fissato per legge ma con discreti margini di oscillazione da Stato a Stato – l’India è una federazione di Stati con molta autonomia in materia economica – si aggira intorno alle 3000 rupie al mese, poco più di 40 euro.
E 3000 rupie al mese non solo non bastano, ma creano un’esasperazione che il 20 febbraio è sfociata in episodi di violenza nel distretto di Noida, nei pressi di Delhi. Una folla inferocita ha letteralmente messo a ferro e fuoco parti del distretto, che ospita numerose fabbriche. Secondo la stampa indiana sarebbero state danneggiati almeno 500 stabilimenti di produzione e ridotti in cenere 15 veicoli.
“La maggior parte degli operai prende 3000 rupie al mese ed è obbligata a lavorare fino a 12 ore al giorno, condizioni di ingiustizia che hanno infiammato l’ira tra i lavoratori” ha spiegato all’Hindustan Times Rakesh Kumar, impiegato in una fabbrica di vestiti. “I miei precedenti datori di lavoro non pagava i salari di 50 lavoratori da tre mesi. Noi abbiamo protestato e ci siamo lamentati con l’amministrazione. Ma non ci ha aiutato nessuno, abbiamo dovuto cercare un altro lavoro”.
Nella serata sono state arrestate 65 persone con accuse che vanno dal vandalismo al furto.
Altri episodi di violenza si sono verificati in Haryana, dove un manifestante è stato accidentalmente investito da un autobus che stava tentando di fermare per obbligare il conducente a partecipare allo sciopero.
Ma il triste primato dell’evento più drammatico tocca al Bengala Occidentale. Ironicamente lo Stato meno colpito dallo sciopero, grazie al pugno di ferro adottato dalla chief minister Mamata Banerjee – anti-comunista dichiarata – che pur di assicurare la normalità delle attività produttive è ricorsa a vere e proprie minacce: rischio licenziamento per chi non si fosse presentato a lavoro in impieghi statali, ritiro licenza ad esercizi privati. In Bengala, governato per quasi quarant’anni dal Partito Comunista Indiano (Marxista), lo sciopero non si è sentito.
Alcuni “attivisti” del Trinamool Congress, il partito di Banerjee, la mattina del 21 febbraio, nel distretto di Murshidabad, hanno raggiunto l’abitazione di un impiegato statale che ieri non si era presentato a lavoro. Per punizione, interpretando con eccesso di zelo la politica del rigore imposta da Mamata, gli hanno amputato un orecchio.
Nel Bengala di Mamata Banerjee non si deve più scioperare.
[Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su Rassegna.it; foto credit: hindustantimes.com]