Pechino, l’officina della post-democrazia

In by Gabriele Battaglia

Cento giorni dall’insediamento di Xi Jinping alla guida del Partito comunista cinese. La Cina continuerà sulla strada delle riforme e fin qui ci sono stati segnali confortanti. Tanto che tra i "China watchers" c’è chi crede che il Pcc non sia in crisi. E anzi sostiene che sotto la nuova guida si realizzerà il "sogno cinese". Cento giorni di Xi Jinping. Il nuovo segretario del Patito comunista cinese si è insediato da poco più di tre mesi e la stampa del Dragone celebra la ricorrenza con grande enfasi, in analogia con la tradizione di festeggiare i primi cento giorni di un neonato.

L’agenzia Nuova Cina sottolinea la portata internazionale del “Sogno cinese” di Xi, citando diversi esperti internazionali secondo cui un ruolo sempre più attivo di Pechino sulla scena internazionale sarebbe un bene per tutto il pianeta. Purché sia ovviamente una Cina “forte, indipendente, stabile e socialista”, afferma l’esperto cubano Jose Luis Robaina.

Tra i risultati conseguiti in questi primi cento giorni, Xinhua enfatizza l’avvio della campagna contro la corruzione e contro gli eccessi, che è la condizione necessaria affinché la gente continui a fidarsi del Partito e lo segua sulla strada delle riforme. Quali? Non è chiaro, ma l’agenzia di stampa ufficiale cita il “viaggio a sud” di Xi come una chiara indicazione per il futuro. Nel ripetere il percorso che già fece Deng Xiaoping a suo tempo, il nuovo leader ha voluto indicare che si continuerà sulla strada delle riforme economiche di mercato.

Si passa poi agli esteri, dove la parola d’ordine è “sviluppo pacifico”. Ma che sia ben chiaro, non a scapito dei “legittimi diritti e interessi”. Chiara è l’allusione al conflitto per le isole Diaoyu/Senkaku e, infatti, del “sogno cinese” non sembra fidarsi troppo il premier giapponese Shinzo Abe, che è volato a Washington per costruire un’alleanza più stretta con gli Usa di Obama. Sul tavolo, naturalmente, le tensioni nel mar Cinese Orientale, dove l’ultimo capitolo dell’escalation alcune motovedette cinesi avrebbero seguito un peschereccio giapponese in acque che Tokyo rivendica come proprie.

“Nell’ultimo periodo, la Cina è sembrata più conciliante” – commenta l’osservatore di cose cinesi, Bill Bishop – ma “forse Pechino voleva solo trascorrere vacanze tranquille” (il riferimento è alle celebrazioni del capodanno cinese, quasi concluse). “Ma tra l’incontro Abe-Obama e le mosse degli Stati Uniti contro la pirateria informatica, va considerato il rischio di un innalzamento della tensione”. Stiamo connessi. In questo affresco sono assenti i riferimenti alla politica interna, che i media ufficiali riconducono in toto all’ampliamento del benessere economico: se cresciamo economicamente e con ordine, tutto fila. Non è un po’ limitativo? Come può autoriformarsi, di fatto, la Cina?

Giova a questo proposito citare il saggio comparso su Foreign Affairs, “Il futuro post-democratico comincia in Cina”, di Eric X. Li, venture capitalist di Shanghai, osservatore della Cina, nonché “Henry Crown Fellow” dell’ASPEN Institute. Secondo l’autore, la vulgata secondo cui la Cina sarebbe in crisi e il partito unico starebbe vacillando, perché non più in grado di garantire crescita accelerata, è una panzana solenne.

Al contrario, il Partito avrebbe già rivelato nei suoi 63 anni al potere una formidabile capacità di adattamento al mutare dei tempi. E quindi, proprio a Pechino il mondo può assistere alla nascita del “futuro post-democratico”.

Chiariamo subito che il Eric Li non vuole proporre il sistema cinese come alternativa alla democrazia occidentale perché “al contrario di questa, non si pretende universale. Non può essere esportato. Ma il suo successo dimostra che sono molti i sistemi di governo che possono funzionare, quando sono congruenti con la cultura e la storia di un Paese”.

Il Partito sa riformarsi – dice l’articolo – e un esempio è l’introduzione negli anni Ottanta e Novanta dei limiti temporali all’occupazione di cariche politiche (e anche dei limiti di età a 68-70 anni per la leadership). Prima di questo, i leader politici potevano usare la propria posizione per accumulare potere e rendere perpetue le proprie regole. “Anche la mobilità verso l’alto all’interno del Partito è aumentata”. Svecchiamento e mobilità interna: la ricetta dell’evoluzione.

In termini di politica estera – sostiene Eric Li – la Cina ha cambiato rotta molte volte per raggiungere la grandezza nazionale. “Ma nella sua continua ricerca di grandezza, sta cercando di sfatare i recenti precedenti storici e di crescere pacificamente, evitando il militarismo che affliggeva la Germania e il Giappone nella prima metà del secolo scorso”.

E se si pensa che la corruzione sia sul punto di fare esplodere la Cina, “il partito è il suo migliore antidoto perché, contrariamente a quanto si pensa, altamente meritocratico al suo interno”Non è vero, per esempio, che sia in ostaggio dei principini, la casta composta dai figli dei leader storici di cui fanno parte anche cinque degli attuali sette componenti del “comitato permanente” (quelli che di fatto governano la Cina). Se si va a vedere gli organismi immediatamente inferiori, ci si accorge che la stragrande maggioranza “proviene dai ceti medi e medio-bassi”.

Questa capacità di evolvere nel segno della meritocrazia è, secondo Li, garantito da un organismo misconosciuto ai più: il Dipartimento Organizzativo del Partito comunista, che “svolge un elaborato processo di selezione, valutazione e promozione burocratica che sarebbe l’invidia di qualsiasi società”. In pratica, a ogni gradino della scalata nei ranghi del Pcc ci sarebbero sistemi di valutazione delle performance. Dopo di che, i “meritevoli” sono in gran parte spediti all’estero per studiare le policy migliori e, quindi, provati “sul campo” con assegnazioni nelle province che durano anche molti anni. Osservati speciali.

Xi Jinping sarebbe in pratica l’esempio di tutto questo. Può dunque continuare sulla sua strada verso “il sogno cinese”.

[Scritto per Lettera43; foto credits: straitstimes.com ]