La sentenza è di portata storica. Una corte di Pechino ha condannato dieci persone colpevoli di aver sequestrato e recluso illegalmente dei petizionisti, nelle cosiddette "carceri nere". Tuttavia, la pratica sembra essere ancora lontana dall’essere passata di moda. In una sentenza che si annuncia storica, una corte di Pechino ha condannato dieci “teppisti” al soldo dei funzionari locali, colpevoli di avere sequestrato e recluso illegalmente dei petizionisti: uomini e donne che dalle lontane province convergono sulla capitale per presentare reclami e proteste agli organi giudiziari.
La pratica è diffusa. “La petizione ha le sue radici in epoca imperiale – ricorda il South China Morning Post – quando la gente comune riusciva a far ascoltare all’imperatore le proprie richieste inviandole alla corte”. Oggi, in un Paese dove lo Stato di diritto è ancora subordinato alla discrezione (spesso all’abuso) dell’autorità politica, l’unico modo per rivalersi è quello di portare il proprio caso a Pechino, nella speranza di essere ascoltati.
I funzionari delle province guardano però generalmente con il fumo negli occhi i petizionisti, i cui reclami rivelano infatti il malaffare locale e spesso accusano direttamente loro. Per questo motivo è invalsa la pratica di assoldare dei “guardiani” che “intercettino” i petizionisti prima che arrivino a Pechino, li sequestrino e li tengano rinchiusi nelle cosiddette “prigioni nere” finché questi non scenderanno a più miti consigli.
Xinhua rivela che i dieci condannati sono tutti contadini dalla provincia dell’Henan, di età compresa tra 17 e i 32 anni, e si sono beccati da sei mesi a due anni per la detenzione illegale di quattro petizionisti, lo scorso anno. Tre imputati minorenni hanno invece ricevuto la sospensione condizionale della pena.
I quattro petizionisti – continua l’agenzia Nuova Cina – sono tutti uomini e furono intercettati la notte del 28 aprile e accompagnati con l’uso della forza in una casa in affitto, dove sono stati tenuti fino alla sera successiva, quando sono stati rispediti nell’Henan. In seguito sono però tornati a Pechino per denunciare il caso e la polizia ha proceduto agli arresti. Xinhua scrive che il principale imputato, Wang Gaowei, aveva in affitto due case alla periferia di Pechino e le utilizzava per tenere rinchiusi i firmatari provenienti dall’Henan. A loro volta, i carcerieri erano stati assunti da un uomo chiamato Fu Zhaoxin.
E qui la linea si interrompe, perché la sentenza colpisce i pesci piccoli e non tocca i mandanti. Il Southern Metropolis Daily rivela infatti che Fu è lo zio Wang ed è colui che ha assunto dei giovani di un villaggio della contea di Yuzhou, provenienti da famiglie povere. Secondo quanto dichiara il padre di Wang Gaowei, i funzionari di Yuzhou hanno poi chiesto a suo figlio di lavorare a Pechino: “Gli hanno detto che gli avrebbero trovato un buon lavoro”. Tuttavia il verdetto sancisce che i “teppisti” non avevano nulla a che fare con il governo locale.
Anche il governativo China Daily sottolinea che “il giudice non ha rivelato ulteriori informazioni sui dieci imputati – chi sono, perché hanno detenuto i petizionisti e se sono stati incaricati da qualcun altro a farlo”. Il giornale aggiunge anche che le pene sono state alleggerite dopo che gli imputati si sono detti pronti a risarcire le vittime. “Wang è stato condannato a due anni, la pena più pesante, mentre a tutti è stato ordinato di pagare un risarcimento alle vittime compreso tra i 100mila e i 610mila yuan [12mila-72mila euro]”.
Intervistato dal South China Morning Post, Nicholas Bequelin, di Human Rights Watch, sostiene che la mossa è “il tentativo di porre un freno al sistema delle ‘prigioni nere’ più che di sradicarlo". La condanna avrebbe un “effetto moderatore” per fare sì che altri funzionari ci pensino due volte prima di detenere persone illegalmente.
Ma punire solo i personaggi assunti per gestire le carceri e non i funzionari che li assoldano significa che queste strutture continueranno ad esistere. “Pechino continuerà a guardare dall’altra parte fino a quando i petizionisti saranno considerati un elemento di disturbo per l’immagine della capitale”, conclude Bequelin.
[Scritto per Lettera43; foto credits: news.com.au]