L’articolo di un popolare settimanale scandalistico ha riportato l’attenzione sulla yakuza, la potente malavita giapponese. Da anni in condizione di semi-legalità, oggi le cose sembrano più difficili. Il governo ha rafforzato i controlli. E la crisi economica spinge la yakuza a rafforzare le sue connessioni estere. Nel 2013, la yakuza, la potente malavita organizzata giapponese, sarà più intraprendente fuori dai confini del Paese-arcipelago, preannunciava poco tempo fa il popolare settimanale giapponese Asahi Geino. Lo faceva citando le parole del boss di un clan del Kanto, l’area della capitale Tokyo: "Alcuni yakuza riusciranno a stabilire una base all’estero." Non c’è solo gossip, dunque, nei settimanali scandalistici del Sol levante.
Cina, Macao e Corea del Sud: queste le destinazioni preferite dai clan giapponesi. Il nuovo trend sarebbe conseguenza dell’adozione di misure più stringenti, approvate a partire dal 2011, nei confronti della malavita organizzata. In particolare, in settori chiave per la yakuza: il racket e l’edilizia. Il traffico di droga resta ancora un settore forte, ma i clan non avranno più lo stesso potere economico di un tempo.
"Il Giappone," sottolinea Andrew Rankin sull‘Asia Pacific Journal, "ha da sempre un rapporto di amore e odio con i suoi fuorilegge." Per secoli al soldo dei signori della guerra, nel XVII secolo gli yakuza (letteralemente otto-nove-tre, numeri che corrispondevano una mano perdente nell’oichokabu, un gioco d’azzardo tradizionale giapponese) iniziarono a organizzare pattugliamenti nei propri quartieri per mantenere l’ordine pubblico. I capi-clan venivano inoltre pagati dai signori feudali per fornire manodopera a basso costo.
Finita l’era feudale, fin dagli ultimi decenni dell’ Ottocento, i kumi (gruppi) della mala giapponese iniziano a collaborare con il nuovo governo imperiale, che prima tenta di sradicarli, e poi si accorge della loro utilità. La yakuza supporta allora operazioni militari, azioni di repressione su dissidenti e movimenti operai ed entra in Parlamento. Nel dopoguerra contribuisce attivamente alla ricostruzione e alla ascesa economica del Giappone, tanto che la yakuza non sarà mai dichiarata illegale.
Dagli anni ’80, però, qualcosa cambia radicalmente. La politica si accorge che la yakuza aveva superato i limiti tradizionali del racket locale e si era gettata nel mondo della finanza e dell’edilizia speculativa. In due decenni, tra gli anni 70 e gli anni 80, continui scandali portano alla luce un sistema ben avviato di collusione con la politica e i governi. La yakuza era ormai un’impresa corporativa di dimensioni spropositate. Era quindi necessario intervenire. Dal 1991 Tokyo approva succesive misure di controllo sulla malavita. La yakuza, fino ad allora tollerata, quasi-legale, in molti casi simbiotica con le forze dell’ordine, perde nel giro di vent’anni il suo ruolo tradizionale.
Proprio in occasione dell’organizzazione dei primi soccorsi alle zone colpite dal terremoto dell’11 marzo, nel 2011 si torna a parlare di yakuza. Il clan Inagawa, il terzo più grande del Paese, fortemente radicato nelle aree colpite dal sisma, è tra i primi a inviare mezzi e viveri. Anche se la yakuza di oggi ha perso l’influenza che aveva in passato, può contare ancora su circa 80 mila effettivi (statistiche del libro bianco sulla malavita del 2010). E ora cerca nuove opportunità all’estero.
Estero non vuol dire però affari sicuri. Fuori dai confini nazionali, infatti, non sussistono le stesse regole d’onore che vigono in Giappone. Il ninkyo-do (letteralmente "la via dello spirito cavalleresco"), lo spirito che impone a tutti gli affiliati di "aiutare il debole e combattere il forte" e che regola i rapporti tra i diversi clan, all’estero non offre lo stesso sostegno e protezione che invece garantisce quando si fa business nel sottopancia dell’economia nipponica.
Pertanto, "la maggior parte degli yakuza saranno costretti a rimpatriare". Altri, invece, quelli con le giuste "connessioni" e un’adeguata potenza finanziaria, riusciranno a ampliare il proprio giro d’affari. Le aree di espansione sono in particolare in Cina e in Corea del Sud, dove alcuni clan giapponesi hanno stabilito delle partnership d’affari con le mafie locali. "facciamo da intermediari", spiegava Masatoshi Kumagai, un altro boss della yakuza, al settimale francese L’Expansion. "Investiamo anche in imprese asiatiche di vario genere. Per esempio, siamo entrati nei casinò di Macao."
Il futuro però non è roseo per i gruppi criminali del Sol Levante. La yakuza è una malavita ormai fortemente indebolita sul fronte interno e a rischio di sopravvivenza all’estero. "Oggi", concludeva Kumagai, "non esistono più delle vere barriere tra il mondo legale dei trader, e quello illegale degli yakuza". I confini tra legalità e illegalità sono sempre più fluidi e sfocati.
[Scritto per Il FattoQuotidiano.it; foto credits: asiancorrespondent.com]
*Marco Zappa nasce a Torino nel 1988. Fa il liceo sopra un mercato rionale, si laurea, attraversa la Pianura padana e approda a Venezia, con la scusa della specialistica. Qui scopre le polpette di Renato e che la risposta ad ogni quesito sta "de là". Va e viene dal Giappone, ritorna in Italia e si ri-laurea. Fa infine rotta verso Pechino dove viene accolto da China Files. In futuro, vorrebbe lanciarsi nel giornalismo grafico.