Monopoly ambiente

In by Gabriele Battaglia

Ad agosto 2012 La ong ambientalista cinese Friends of Nature ha fatto partire la prima class action contro un’industria chimica. Anche grazie a un emendamento "ambientalista" al codice penale. A che punto è la tutela ambientale in Cina? China Files lo chiede a Judith Shapiro, autrice di China’s Environmental Challenge. Il livello di sopportazione dei cinesi per le conseguenze che la crescita economica ha sulla salute sembra ormai arrivato al limite. Tra il 2010 e il 2011 le proteste legate ai temi ambientali sono aumentate del 120 per cento, ha ammesso Yang Chaofei, vicepresidente della Società per le scienze ambientali, intervenuto a una riunione organizzata dal comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo.

A ottobre è successo a Ningbo, nella ricca provincia costiera dello Zhejiang, dove migliaia di manifestanti hanno ottenuto la sospensione del previsto ampliamento di un impianto petrolchimico di proprietà di una controllata del colosso statale Sinopec. Le manifestazioni nello Zhejiang sono state le ultime in ordine di tempo.

A luglio le proteste popolari costrinsero alla sospensione della costruzione di un oleodotto a Qidong, nel Jiangsu. Poche settimane prima gli abitanti di Shifang, nella provincia sudoccidentale del Sichuan, scesero in strada e ottennero, anche con scontri, il blocco di un impianto per la produzione di rame. Nell’estate del 2011 furono invece le migliaia di abitanti di Dalian, città portuale nella Cina nordorientale, a vincere la loro lotta contro una fabbrica per la produzione di paraxylene. 

Ma oltre la protesta di piazza che turba l’armonia agognata dai leader di Zhongnanhai, il Cremlino cinese, si sta facendo strada una via giudiziaria per difendere salute e natura. In Cina tutelare l’ambiente dalle industrie inquinati è un po’ come essere impegnati in un gioco di società. C’è un avversario, si fanno dei passi avanti e lo stesso fa lui. Ogni tanto si ha anche l’impressione di non potere proseguire, ma chi gioca continua ad avere speranza. Intervistato da Jonah Kessel per il documentario Hopeful, l’attivista ambientalista Chang Cheng descrive così la prima class action intentata in Cina da un’organizzazione non governativa contro una grande società accusata di inquinare.

Chang Cheng fa parte di Friends of Nature, il più longevo gruppo ambientalista cinese. Lo scorso agosto l’organizzazione ha portato in tribunale la Liuliang Chemical Industry accusata di aver riversato 5.000 tonnellate di cromo esavalente nelle acque del fiume delle Perle. Chang e compagni chiedono 10 milioni di renminbi, pari a circa un milione di euro, in risarcimenti per bonificare l’area colpita e luoghi come Xinglong, nella provincia meridionale dello Yunnan, conosciuto come il villaggio del cancro per l’alta percentuale di malattie che si ritiene dovute alla contaminazione.

L’iniziativa di Friends of Nature è stata possibile per l’approvazione la scorsa estate di un emendamento al codice di procedura penale. “Se l’interesse pubblico è messo a rischio, come nei casi di inquinamento ambientale e violazione dei diritti dei consumatori”, recita la legge, “le autorità competenti e le organizzazioni sociali possono rivolgersi alla magistratura”. Almeno sulla carta un’opportunità per le organizzazioni ambientaliste registrate di far valere le proprie ragioni.

La class action in Cina è ancora a uno stato embrionale”, ha detto a China Files la professoressa Judith Shapiro, direttrice del master in Risorse naturali e Sviluppo sostenibile della American University a Washington e autrice di China’s Environmental Challenge, “in molti casi i tribunali non sono sicuri su come gestire le cause intentate dai gruppi ambientalisti che non sono vittime dirette dell’inquinamento. Inoltre gli ambientalisti corrono il rischio di essere picchiati o arrestati per ordine di funzionari che beneficiano dei legami con le industrie che inquinano

L’emendamento è un passo avanti, ha spiegato Alex Wang, avvocato specializzato in questioni ambientali e professore alla Berkeley Law School. “Per i funzionari e le società ci sono però molti metodi per ostacolare i processi” ha aggiunto, “Un esempio è trattare le cause collettive come casi individuali -gli emendamenti approvati ad agosto escludono i singoli cittadini- o dare la competenza ai tribunali locali dove più forti sono le protezioni per funzionari e imprenditori”.

La tutela dell’ambiente, scrivono molti commentatori, dovrà essere uno dei punti dell’agenda della dirigenza cinese incoronata dal Congresso del Partito comunista di novembre, che guiderà il Paese per i prossimi dieci anni. Già la passata leadership, con al vertice il duo formato dal presidente Hu Jintao e dal premier Wen Jiabao, si era mostrata almeno a parole attenta a queste tematiche. Il riferimento al cosiddetto “sviluppo scientifico” entrato nel preambolo dello Statuto del Pcc sottintendeva una maggiore attenzione al rapporto tra l’uomo e l’ambiente naturale.

Secondo la professoressa Shapiro:“Il governo e il Partito lottano per raggiungere obiettivi spesso in contraddizione. Devono migliorare le condizioni di vita della popolazione in un Paese che in alcune aree è ancora disperatamente povero e la cui classe media sta scoprendo la gioia del consumismo. Allo stesso tempo devono gestire i costi del produrre una buona parte delle merci in commercio nel mondo e la sempre maggiore resistenza contro l’inquinamento. Se paragonato ad altri dicasteri, il ministero dell’Ambiente ha pochi poteri. I leader supremi capiscono tuttavia che le proteste sociali legate alle tematiche ambientali sono un rischio per la propria legittimità”.

Una consapevolezza che si riflette anche nei discorsi ufficiali. Si parla di non sostenibilità del modello di crescita, di riduzione della dipendenza dalle fonti di energia non rinnovabili, di green economy. Navigando nella sezione business del sito del China Daily, una delle voci ufficiali in inglese di Pechino, sulla destra salta agli occhi la colonnina “Green China” che riporta le iniziative di Pechino per la svolta verde della propria economia.

A metà settembre, mentre i dati economici descrivevano un Paese in affanno, se paragonato ai passati ritmi di crescita a doppia cifra, il quotidiano riportava le parole del vicepresidente della Banca Mondiale per l’Asia e il Pacifico, Pamela Cox, secondo cui parlare di crescita “verde” non era sinonimo di crescita lenta. “L’enfasi sulla green economy riflette la consapevolezza dell’importanza di arrivare a una forma di sviluppo sostenibile e delle opportunità offerte dalla produzione di merci “verdi”. Penso ai pannelli solari o alle turbine eoliche”, continua Shapiro, “Tuttavia molta di questa retorica è lontana dalla realtà. Il problema è l’applicazione delle leggi, soprattutto per le pressioni dei governi locali alle prese con lo sviluppo economico e la necessità di garantire l’occupazione”.

Alla fine di agosto la sessione bimestrale del comitato permanente del Parlamento ha affrontato tra gli altri punti in calendario la riforma della legge della tutela dell’ambiente. Il testo attuale risale al 1989, un’epoca, sottolinea l’agenzia statale Xinhua, in cui l’economia cinese era appena all’inizio del boom che l’avrebbe fatta diventare la fabbrica del mondo.

Tra il 1995 e il 2011 sono state presentate oltre 70 proposte per emendare la legge. Tra le novità dell’ultima bozza di riforma spicca la norma che esorta le amministrazioni a rendere pubbliche le informazioni sulle tematiche ambientali, sugli incidenti che possono compromettere l’ambiente, sull’uso dei fondi raccolti con le penali pagate da chi inquina. Assegna responsabilità al personale addetto alla raccolta e alla monitoraggio dei dati. Fissa standard ambientali che gli enti locali sono tenuti a rispettare pena la sospensione di progetti che possono provocare ulteriore inquinamento. Inoltre, proprio nei giorni in cui la stampa diffondeva i contenuti della bozza, il governo stabiliva di rendere pubblici i rapporti sull’impatto ambientale dei progetti infrastrutturali per evitare le proteste della popolazione come nei casi di Ningbo, Shifang, Qidong.

Per gruppi come Greenpeace China, che chiedono una maggiore partecipazione dei cittadini e delle ong nella riforma, gli emendamenti devono definire meglio ruolo e responsabilità del governo e attenersi a norme comuni a livello internazionale come stabilire che chi inquina deve pagare e fare proprio il principio di precauzione. Trascorsi vent’anni la riforma è comunque considerata un’opportunità a patto che alla fine non si riveli un semplice ritocco. Altri commenti citati dal quotidiano Global Times, sono meno concilianti e lamentano una bozza prona agli interessi del mondo economico, in cui la parola sviluppo compare più volte mentre i termini verde e sostenibilità mai.

Per aver un cambiamento serve un maggiore coinvolgimento della popolazione, scrive Ma Jun, direttore dell’Institute of Public and Environmental Affairs (Ipe), un’organizzazione no profit che dal 2006 mappa l’inquinamento in Cina e compila un database sul comportamento di aziende e governi locali. Affinché la popolazione sia coinvolta, spiega, la leadership di Pechino deve riconoscere la tutela dell’ambiente come un diritto fondamentale da cui ne derivano almeno altri tre: il diritto a essere informati, quello a poter partecipare e infine quello di poter avere giustizia.

[Scritto per Terra, foto credits: ]