Caratteri cinesi – E così, vago senza meta

In by Simone

Un demone-cavallo e il viaggio come contemplazione (con macchina fotografica al collo): dopo l’intervista in cui spiega il suo mondo di immagini, ecco gli scritti  di Aluss, il fotografo di etnia mongola preso tra vita pechinese e nostalgia delle steppe. 

L’origine dei nove cavalli bianchi

Tanto tempo fa, c’era un cacciatore con un cavallo bianco. Un giorno il demone Manggusi arrivò nel luogo in cui viveva il cacciatore e si trasformò in nove cavalli bianchi, uguali in tutte le loro parti al cavallo del cacciatore. Arrivata la sera, il demone cavallo divorava i pastori della zona. Il cacciatore voleva uccidere Manggusi, ma non lo riusciva a distinguere e aveva paura di uccidere il suo cavallo.
Una sera il cavallo bianco arrivò in sogno al cacciatore e disse: “Padrone! Devi sbrigarti a salvare i pastori. Uccidi tutti e dieci i cavalli, il tuo cavallo sarà quello a cui sgorga un liquido bianco nella parte del collo che hai reciso.” Il cacciatore salvò i pastori e uccise i dieci cavalli. I pastori si salvarono dalla miseria ma il cavallo del cacciatore era morto. 
Il cacciatore trovò il corpo del suo cavallo bianco, lo avvolse in una stoffa dello stesso colore e lo depose al sicuro su un’altura. Ogni volta che aveva nostalgia, il cacciatore prendeva una stoffa bianca e si recava sull’altura in cui riposava il cavallo e appendeva al suo collo la stoffa. 
Tanto tempo fa per i sacrifici, i giuramenti e l’entrata in guerra si usava sacrificare un cavallo bianco, in quanto era simbolo dello yang di origine divina. In sacrificio agli dei o come protettore degli animali domestici, c’era l’usanza di scegliere un cavallo divino, completamente bianco.

E così, vago senza meta

Il mio desiderio è spendere tre o quattro mesi l’anno per andare a fare foto. Fotografare quei luoghi, quelle persone, quelle atmosfere, quello che è già accaduto o quello che deve ancora accadere. Quelle persone con il volto dai tratti indistinti.
Per quale ragione voglio andare lì? Non lo so. Cos’è che mi affascina? Non lo so. Ogni volta che sono a Pechino nella mia stanza, non vedo l’ora di recarmi in quei luoghi. E poi parto. Lì non mi sono imbattuto nella cosiddetta storia commovente o nell’esperienza difficile da dimenticare. 
Il sole sorge e tramonta, cammino da solo, fotografo e ascolto. La macchina fotografica appesa al collo, vedo lo scenario che mi interessa e lo fotografo. 
Il cavallo, il deserto, l’acqua, il remoto orizzonte…. Queste sono le cose in cui mi perdo. Poi c’è la gente dai volti indistinti, i loro profili, vedere le loro spalle, le loro spalle che si allontanano.  
Sono luoghi in cui in passato è accaduto qualcosa di glorioso. Oggi la gente del posto, come me, non ha nulla da fare. Ho fotografato i ritratti dei volti indistinti. Una persona mi ha chiesto: “Perché non fotografi la nitidezza?” Ho risposto: “A che servirebbe?” 
In viaggio a volte il cielo è sempre coperto. La pioggia batte fitta. Mattina? Mezzogiorno? Pomeriggio? Non lo so, non si riesce a capire. Se ci fosse il sole e non mi fossi appena svegliato, potrei indovinare. In quei giorni di pioggia, non provo nulla. Il vuoto. Una bussola sopra al magnete. 

[I pezzi sono anche su Caratteri Cinesi. Foto di Aluss, traduzione di Désirée Marianini]

*Aluss è sia fotografo sia gestore di un noto whisky-bar pechinese. Di origine mongola, basa la propria estetica sul viaggio e sulla riscoperta della natura e dei grandi spazi della sua terra. Pubblica foto e scritti sul suo blog.