Dalla Franciafrica alla Cinafrica. Dalla presenza francese alla presenza cinese nell’area francofona dell’Africa sub-sahariana è una tesi di tipo comparativo che si pone come obiettivo quello di mettere a confronto motivazioni, modalità e risultati della presenza francese e della presenza cinese nel continente africano.
Su un piano scientifico è possibile mettere a fuoco due fenomeni geograficamente uniti ma cronologicamente distinti – la presenza francese in Africa, legata soprattutto al periodo coloniale e post-coloniale, e la penetrazione cinese nel continente, fenomeno perlopiù recente – e, più in generale, di mettere a confronto due modalità completamente differenti di imporsi sul piano internazionale e di provvedere agli interessi nazionali: la Francia e la Cina, l’ex-potenza coloniale e la patria del soft power.
La precisa scelta di prendere in esame l’area sub-sahariana è legata alla fragilità economica e politica caratteristica di questa area, ben superiore a quella riscontrabile nelle altre macroregioni del continente (Africa Settentrionale e Repubblica Sudafricana): nei paesi sub-sahariani, infatti, gli effetti della presenza francese prima, e di quella cinese poi, si sono presentati e si presentano con un’evidenza che non è rintracciabile nel resto del continente.
All’interno di quest’area, che pure è diversificata al suo interno, si è scelto di prendere come riferimento i paesi francofoni, che mostrano i retaggi della dominazione coloniale francese in tutte le loro sfaccettature e che, allo stesso tempo, rientrano ad oggi tra le aree di maggiore coinvolgimento della Cina in Africa. Pertanto, si tratta di un’area che si presta perfettamente a realizzare il tipo di confronto a cui mira questa tesi.
Dal lavoro di ricerca che è stato compiuto emergono due lunghi viaggi paralleli sulle tracce di due presenze che si sono estese, secondo archi di tempo sfalsati, sulla vasta area dell’Africa sub-sahariana. Il primo viaggio conduce dapprima nella storia della creazione dell’impero coloniale francese, contemporanea alla nascita degli altri grandi imperi coloniali, come quello inglese e quello portoghese.
Nate nel ‘600 in qualità di sporadiche postazioni commerciali, le colonie francesi sub-sahariane si sono poi estese nel corso del XIX secolo, dando origine al nucleo fondante di quella che sarebbe divenuta, più tardi, l’Union française. Nel percorrere la strada che ha portato alla nascita di queste colonie, risulta ben evidente come l’approccio utilizzato dai francesi nei confronti di queste terre e di queste popolazioni rientri a pieno titolo nel modello coloniale europeo: in esso, la volontà di imporre il proprio dominio su nuovi territori da sfruttare si è combinata con la convinzione di un’assoluta supremazia della razza bianca, la quale ha costituito il presupposto ideologico necessario a trasformare la conquista non solo in un diritto, ma addirittura in una sorta di dovere, da assolvere nei confronti di questi popoli bisognosi di un’opera civilizzatrice.
Il razzismo, lo sfruttamento e il dominio – i cardini sui quali è stato costruito l’impero coloniale francese – hanno lasciato spazio, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, al pentimento generalizzato del fenomeno conosciuto come decolonizzazione. Ma a che punto la Francia di De Gaulle e dei suoi successori si è lasciata alle spalle questo passato brutale? Il legame profondo che ha unito la métropole alle sue ex colonie sub-sahariane durante gli anni della Guerra Fredda ha effettivamente sancito l’abbandono dei vecchi schemi del colonialismo ottocentesco?
Proseguendo il viaggio, è possibile constatare come la Francia abbia tentato e sia riuscita, fino al crollo del Muro di Berlino, a «cambiare tutto per non cambiare niente»: nonostante il raggiungimento delle indipendenze da parte dei paesi sub-sahariani, infatti, il dominio economico, politico e culturale della Francia sulle sue ex colonie non è mai venuto meno e ha potuto far leva su un’intricata rete di interessi pubblici e privati che hanno trovato nel controverso personaggio di Jacques Foccart la perfetta incarnazione.
È dunque legittimo chiedersi quanto e come siano realmente cambiati i rapporti franco-africani con l’avvento della decolonizzazione. Basandosi sull’analisi compiuta in merito alla politica africana della Francia durante la Guerra Fredda, emerge chiaramente come il concetto di diritto/dovere alla supremazia – che aveva caratterizzato il passato coloniale francese – si sia meramente trasformato, non estinguendosi affatto.
Se si pensa, da un lato, all’ingerenza francese nelle questioni politiche ed economiche degli stati sub-sahariani e al ruolo di gendarme de l’Afrique tramite il quale essa ha imposto a una parte del continente la propria appartenenza al blocco occidentale nell’ambito della Guerra Fredda, è inevitabile rintracciare nell’epoca moderna gli ingombranti retaggi della missione civilizzatrice del periodo coloniale; e se si pensa, dall’altro lato, agli interessi che la Francia ha continuato a trovare sul continente in termini economici (si ricordino, a tal proposito, il fabbisogno energetico francese e la prosperità delle imprese francesi che hanno investito sul continente), appare evidente come il desiderio coloniale di arricchire la Francia sulle spalle di altri territori e di altre popolazioni non sia del tutto venuto meno.
Tuttavia, il contesto politico ed economico del XX secolo è stato caratterizzato da numerosi e profondi cambiamenti, che hanno inevitabilmente coinvolto anche il continente africano: ecco che le ex colonie francesi si sono trovate, anch’esse, di fronte alla sfida dello sviluppo e del progresso. Si è trattato di una sfida alla quale esse sono andate incontro con un grande svantaggio da un punto di vista economico e politico, in parte anche a causa del loro recente passato, appunto, coloniale; pertanto, alle dinamiche figlie della dominazione coloniale si è andato ad aggiungere un nuovo meccanismo, quello della dipendenza economica dai paesi donatori di aiuto pubblico allo sviluppo.
Con le Convenzioni di Lomé, i paesi cosiddetti sviluppati hanno stabilito quali fossero i mezzi più indicati per aiutare i paesi in via di sviluppo a mettere in moto le dinamiche dell’industrializzazione e della crescita economica: agevolazioni commerciali, prestiti finanziari e quant’altro, tuttavia, non hanno fatto altro che causare un indebitamento vertiginoso dei paesi africani, decretando così il fallimento del modello assistenzialista occidentale. La soluzione a tale fallimento è stata elaborata nel corso degli anni ’90 e si è concentrata su due punti: il miglioramento della gestione dei fondi a disposizione dei paesi africani e lo sviluppo della democrazia sul continente. In merito al primo punto, sui cui è sorta la cosiddetta dottrina di Abidjan (o dottrina Balladur), la Francia e gli altri paesi occidentali hanno stabilito che solo il rispetto, da parte dei paesi africani, dei Piani di Aggiustamento Strutturale definiti dagli istituti di credito multilaterali avrebbe garantito l’elargizione di aiuti allo sviluppo. In merito al secondo punto, la dottrina La Baule prima e la Convenzione di Cotonou poi hanno decretato che ogni aiuto e ogni agevolazione sarebbero stati subordinati al rispetto dei principi democratici e dei diritti umani da parte dei paesi beneficiari.
È inevitabile cogliere, in queste scelte politiche, clamorosi toni paternalistici (ricordiamo, a tal proposito, il discorso tenuto da Jacques Chirac di fronte al popolo tunisino, nel 2003: «il primo diritto dell’uomo è quello di nutrirsi») che, tra l’altro, male si sposano con la realtà dei fatti: rifacendosi ai numerosi esempi riportati in questa tesi, infatti, appare chiaro come la Francia della Guerra Fredda non abbia esitato a sostenere sul continente dittatori di ogni sorta, pur di tenere salde le redini della politica internazionale in Africa; inoltre, vi è nell’approccio francese una totale mancanza di aderenza al contesto africano, alle sue pieghe più intime e alle sue dinamiche più complesse: l’imperdonabile errore di analisi commesso dalla Francia nella vicenda del genocidio del Ruanda ne costituisce senz’altro la dimostrazione più drammatica ed eclatante.
Le mancanze e gli sbagli commessi dalla Francia nel condurre la propria politica africana hanno gradualmente scavato una voragine nella fiducia dei popoli del continente, delusi da una ex madrepatria che, negli ultimi venti anni, ha vacillato tra ingerenza e indifferenza e ha finito per lasciarli soli di fronte alle questioni della pace, della democrazia e dello sviluppo economico. È dalle ceneri della Françafrique, dunque, che comincia il secondo viaggio, quello che mostra come la Cina abbia conquistato la propria chiave d’accesso all’Africa sub-sahariana francofona.
La Cina imperiale nutriva una profonda curiosità nei confronti della lontana ed esotica Africa, con cui ebbe solo sporadici contatti; tra i pochi personaggi cinesi di età imperiale che hanno raggiunto le coste africane, viene ricordato Zheng He, formidabile navigatore posto a capo della flotta più grande del mondo di allora. Raccontare la sua epopea, tuttavia, è sufficiente per inquadrare le basi culturali con cui la Cina imperiale approdò sul continente africano.
Citiamo a tal proposito le parole di Louise Levathes: «During these thirty years [1405-1433, n.d.r.] half the world was in China’s grasp, and with such a formidable navy the other half was easily within reach, had China wanted it. China could have become the great colonial power, a hundred years before the great age of European exploration and expansion. But China did not».
Le ragioni di questa “mancata colonizzazione” devono essere ricercate nella concezione di ordine mondiale propria della Cina imperiale: essa, basata sul sinocentrismo, non prevedeva tendenzialmente l’impiego della forza militare (se non in caso difensivo) e proponeva come obiettivo quello di imporre sui territori del mondo conosciuto un dominio più culturale che territoriale, basato su un sistema tributario e giustificato dalla presunta superiorità della Cina rispetto alle altre civiltà.
Più recentemente, dopo aver sperimentato in prima persona il dominio coloniale da parte dell’occidente, la Cina repubblicana – e, in particolare, la Cina comunista – ha continuato a considerare il continente africano come un’opportunità, come un possibile alleato funzionale sia a promuovere una terza via alternativa al bipolarismo, sia a isolare diplomaticamente Taiwan.
I rapporti che la Rpc ha instaurato e sviluppato con i paesi dell’Africa sub-sahariana dal 1949 in poi, dunque, non sono stati certo figli del disinteresse: se, da un lato, i paesi africani traevano vantaggio dagli aiuti economici e dai progetti di cooperazione promossi dalla Cina, dall’altro quest’ultima raccoglieva consensi in vista di un maggior riconoscimento sul piano internazionale (che si era fatto ancora più necessario in seguito alla rottura con l’Urss revisionista di Chruščëv).
Veniva dunque posto, alla base dei rapporti tra Africa e Cina, il principio del mutuo vantaggio, che caratterizza ancora oggi la politica africana della Cina e che, al di là della retorica dell’amicizia tra popoli, costituisce a parere di chi scrive il vero scheletro della penetrazione cinese in Africa. Certo, durante la Guerra Fredda si trattava, per la Cina, di un vantaggio prevalentemente ideologico e politico, mentre nell’epoca a noi contemporanea sono subentrati nuovi interessi e nuovi vantaggi: dalla ricerca di nuovi mercati per esportare i prodotti cinesi alla soddisfazione del crescente fabbisogno energetico cinese.
Rimane il fatto, tuttavia, che la Cina continua a porsi, ancora oggi, come un paese investitore, più che come un paese donatore. Forse è qui che risiede la differenza fondamentale tra il modello francese e il modello cinese di politica africana: almeno sul piano teorico, mancano nella politica africana della Cina i presupposti necessari ad innescare quel meccanismo di dipendenza economica che ha ridotto in ginocchio i paesi africani. Senza dubbio, il fatto di concentrare i propri aiuti allo sviluppo nella realizzazione di grandi opere e di strutture basilari necessarie ai paesi sub-sahariani – molti dei quali sono reduci da conflitti – costituisce una soluzione vincente in vista della loro emancipazione economica.
Tuttavia, la massiccia e rapida penetrazione cinese nel continente – che si consuma su più fronti, da quello economico a quello culturale – presenta anche diversi lati oscuri, che è assolutamente necessario tenere in considerazione: in primo luogo, la totale indifferenza cinese nei confronti delle situazioni politiche e umanitarie dei paesi africani costituisce un aspetto critico della presenza cinese in Africa; certo, è pur vero che il modello occidentale del condizionamento politico agli aiuti non ha sortito effetti apprezzabili. Ciononostante, l’appello costante al principio della non-interferenza da parte della Cina potrebbe nuocere non solo agli equilibri africani, ma anche ai rapporti stessi tra Cina e Africa.
Si tratta, dunque, di una questione che la Cina dovrà, in un prossimo futuro, affrontare inevitabilmente. In secondo luogo, esiste la questione dell’impatto ambientale della presenza cinese nell’area sub-sahariana: come è noto, gli standard cinesi in termini di eco-sostenibilità e di tutela dell’ambiente sono ancora in fase di maturazione; pertanto, il rischio che una penetrazione così massiccia e intensiva da parte delle imprese cinesi nei territori africani possa causare danni ambientali esiste senza alcun dubbio.
Come si può evincere da questa tesi, questo è un aspetto sul quale il governo cinese sta lavorando e, ci auguriamo, che tali sforzi conducano a dei risultati concreti. Infine, esiste la possibilità che l’ingresso nel mercato africano delle merci cinesi – così accessibili – e che l’introduzione di numerose imprese cinesi nel territorio possano minare le basi dei già precari equilibri economici raggiunti dai paesi del continente; probabilmente, l’unica strada percorribile al riguardo è costituita da una sempre maggiore integrazione di realtà locali e realtà cinesi, in una prospettiva di complementarietà che potrebbe giovare non poco alla prosperità di questi paesi.
Di fronte al fallimento dell’assistenzialismo post-coloniale dei paesi occidentali e di fronte al crescente successo di paesi come la Cina sul continente, il mondo industrializzato si è comprensibilmente spaventato e chiuso in posizioni di condanna nei confronti delle politiche adottate in Africa dal gigante asiatico: l’approccio cinese all’Africa, effettivamente, presenta peculiarità che risultano essere completamente estranee alla logica occidentale e, dunque, incomprensibili e minacciose.
Questo lavoro è stato realizzato proprio con l’obiettivo di accorciare – tramite l’analisi e il confronto – la distanza esistente tra approccio occidentale e approccio cinese in materia di politica africana e con la speranza che vecchie e nuove potenze possano arrivare finalmente a una collaborazione funzionale e positiva per il continente africano.
*Martina Materassi martina.materassi[@]gmail.com si è laureata nel luglio 2012 in Lingua e cultura cinese presso l’Università per Stranieri di Siena. Si occupa di didattica dell’italiano a sinofoni e di relazioni sino-africane. Attualmente lavora a Shanghai come insegnante di lingua italiana. Potete leggere alcune delle sue traduzioni su Caratteri Cinesi qui.
** Questa tesi è stata discussa presso l’Università per Stranieri di Siena: relatore prof.ssa Anna Di Toro; correlatore prof. Mauro Moretti; correlatore esterno: prof. Andrea Francioni.
[La foto dicopertina è di Federica Festagallo]