La mediazione dei preti cattolici in Kerala, indennizzi extra-giuridici alle famiglie delle vittime ed accuse di omicidio ritirate, la fantasiosa logica dell’ufficio stampa di Maranello e una diplomazia che strizza l’occhio all’Italia sciovinista de Il Giornale. Un po’ di precisazioni sul caso Enrica Lexie.
Il caso Enrica Lexie, per una serie di peculiarità – il governo Monti alla prima vera prova di forza davanti alla comunità internazionale, i due imputati appartenenti alle forze armate italiane, dissidi interni tra il governo locale del Kerala e il governo centrale di Delhi, le origini italiane di Sonia Gandhi, presidentessa dell’Indian National Congress – è stato oggetto di manipolazioni e strumentalizzazioni da entrambe le parti.
In India le autorità del Kerala hanno inizialmente fatto montare il caso urlando e strepitando a mezzo stampa, decise ad imporre l’immagine di un governo locale forte ed al servizio della comunità contro le aggressioni dello straniero, rispolverando un vecchio sentimento anticoloniale mai del tutto sopito.
La nazionalità italiana dei due marò ha giocato un ruolo centrale: in India essere italiani significa essere ricondotti automaticamente a Sonia Gandhi – nata Antonia Maino – , la donna più potente della politica nazionale, dando adito a tutti i sospetti – leciti o illeciti – sull’ipotetica influenza della presidentessa dell’Indian National Congress sui rapporti tra India ed Italia.
Influenza che, secondo gli osservatori più ragionevoli, è in questo caso totalmente inesistente.
Ma col passare del tempo i due marò sono sostanzialmente spariti dalla cronaca indiana, derubricati come un non-caso in attesa di risoluzione.
Alcune iniziative discutibili portate avanti dalla diplomazia italiana, o da chi ne ha fatto tristemente le veci, hanno innervosito molto l’opinione pubblica indiana. Due di queste sono direttamente imputabili alle istituzioni italiane.
In primis, aver coinvolto il prelato cattolico locale nella mediazione con le famiglie delle due vittime, entrambe di fede cattolica. Il sottosegretario agli Esteri De Mistura si è più volte consultato con cardinali ed arcivescovi della Chiesa cattolica siro-malabarese, nel tentativo di aprire anche un canale “spirituale” con i parenti di Ajesh Pinky e Selestian Valentine, i due pescatori morti il pomeriggio del 15 febbraio.
L’ingerenza della Chiesa di Roma non è stata apprezzata dalla comunità locale che, secondo Tehelka, ha accusato i ministri della fede di “immischiarsi in un caso penale”, convincendoli a dismettere il loro ruolo di mediatori.
Il 24 aprile, inoltre, il governo italiano e i legali dei parenti delle vittime hanno raggiunto un accordo economico extra-giuridico. O meglio, secondo il ministro della Difesa Di Paola si è trattato di “una donazione”, di “un atto di generosità slegato dal processo”.
Alle due famiglie, col consenso dell’Alta Corte del Kerala, vanno 10 milioni di rupie ciascuna, in totale quasi 300mila euro. Dopo la firma, entrambe le famiglie hanno ritirato la propria denuncia contro Latorre e Girone, lasciando solo lo Stato del Kerala dalla parte dell’accusa.
Raccontata dalla stampa italiana come un’azione caritatevole, la transazione economica è stata interpretata in India non solo come un’implicita ammissione di colpa, ma come un tentativo, nemmeno troppo velato, di comprarsi il silenzio delle famiglie dei pescatori.
Tanto che il 30 aprile la Corte Suprema di Delhi ha criticato la scelta del tribunale del Kerala di avallare un simile accordo tra le parti, dichiarando che la vicenda “va contro il sistema legale indiano, è inammissibile”.
In Italia, nel frattempo, la vicenda legale dei militari del Reggimento San Marco è andata via via sfocandosi verso toni conflittuali – difensori d’ufficio delle Forze armate da un lato, antimilitaristi dall’altro -, alternando notizie parziali a notizie inventate.
A soffiare sul fuoco di un’opinione pubblica retrocessa a tifoseria poco e male informata ci ha pensato principalmente la redazione de Il Giornale, unica testata a mantenere una copertura costante – e di parte – sul caso.
Due settimane fa, rispondendo all’appello de Il Giornale ed alle “migliaia di lettere” che i lettori hanno inviato alla redazione del direttore Sallusti, la Ferrari ha accettato di correre il gran premio indiano di Greater Noida mostrando in bella vista sulle monoposto la bandiera della Marina Militare Italiana. Il primo comunicato ufficiale di Maranello recitava:
[…] La Ferrari vuole così rendere omaggio a una delle migliori eccellenze del nostro Paese auspicando anche che le autorità indiane e italiane trovino presto una soluzione per la vicenda che vede coinvolti i due militari della Marina Italiana.
La replica piccata del Ministero degli Esteri indiano non si fa attendere: “Utilizzare eventi sportivi per promuovere cause che non sono di quella natura significa non essere coerenti con lo spirito sportivo”.
Pur avendo incassato il plauso del ministro degli Esteri Terzi, che su Twitter ha gioito dell’iniziativa che “testimonia il sostegno di tutto il Paese ai nostri marò”, la Scuderia Ferrari opta per un secondo comunicato.
Sfidando ogni logica e l’intelligenza di italiani ed indiani, l’ufficio stampa della casa automobilistica specifica che esporre la bandiera della Marina “non ha e non vuole avere alcuna valenza politica”.
In mezzo al tira e molla di una strategia diplomatica improvvisata, così impegnata a non scontentare l’Italia più sciovinista al punto da appoggiare la pessima operazione d’immagine del duo Maranello-Il Giornale, accolta in India da polemiche ampiamente giustificabili, il racconto dei marò – precedentemente "dietro alle sbarre" – è continuato imperterrito con toni a metà tra un romanzo di Dickens e una sagra di paese.
Il Giornale, ad esempio, esaltando la vittoria morale dell’endorsement Ferrari, confida ai propri lettori che “i famigliari di Massimiliano Latorre, tutti con una piccola coccarda di colore giallo e il simbolo della Marina Militare al centro appuntata sugli abiti, hanno pensato di portare a Massimiliano e a Salvatore alcuni tipici prodotti locali della Puglia: dalle focacce ai dolci d’Altamura per proseguire poi con le orecchiette, le friselle di grano duro”.
I due militari del Reggimento San Marco, in libertà condizionata dal mese di giugno, come scrive Paolo Cagnan su L’Espresso, in India sono trattati col massimo riguardo e, in oltre otto mesi, non hanno passato un solo giorno nelle famigerate celle indiane, alloggiando sempre in guesthouse o hotel di lusso con tanto di tv satellitare e cibo italiano in tavola. Tecnicamente, “dietro alle sbarre” non ci sono stati mai.
Inoltre, è notizia dello scorso 25 ottobre, il Senato italiano ha approvato definitivamente un accordo stipulato tra il governo italiano e quello indiano che permette ai detenuti di entrambi i Paesi (18 italiani in India, 108 indiani in Italia) di scontare la pena carceraria nel proprio Paese. Una ratifica descritta come “un paracadute” per i due marò della quale però, ad oggi, sulla stampa indiana non si trova traccia.
Mentre si avvicina la fine dell’odissea giuridica, prevista con la sentenza della Corte Suprema di Delhi dell’8 novembre, rimane l’impressione che il caso Enrica Lexie sia stata una grande occasione persa per mostrare alla comunità internazionale un’Italia più matura.
Un Paese in grado di affrontare un contenzioso con una potenza mondiale a testa alta e senza colpi bassi, rinunciando ai mezzucci diplomatici, alle “imprecisioni”, alle falsità ed al campanilismo da stadio che il resto del mondo si aspetta, purtroppo a ragione, da noi.
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[Foto credit: giovaneitaliascandalekr.blogspot.com]