Le grandi imprese di Stato cinesi (Soe) tornano al centro del dibattito interno al Pcc. C’è chi le vede come calderoni di corruzione e ostacolo all’innovazione. E c’è chi, invece, le difende in quanto avanguardie della Cina nel mondo. Una posizione forse incompatibile con il nuovo corso economico della Rpc. Un conflitto sommerso agita le acque del congresso che cambierà la leadership del Partito comunista cinese: è quello che riguarda le grandi imprese di Stato.
Energia, infrastrutture, telecomunicazioni, banche, Difesa, materie prime: la posta in gioco è di immenso valore economico se si pensa che oggi in Cina – secondo dati ufficiali ripresi da Reuters – le State-owned enterprise (Soe) contano ancora per oltre la metà della produzione e dell’occupazione nazionali.
Nel Partito – nominalmente comunista ma di fatto brodo primordiale in cui si mescolano Chicago boys “secondo caratteristiche cinesi” e nostalgici del collettivismo maoista – non ci potrebbe essere divisione più netta: da un lato chi spinge per le privatizzazioni a tappe forzate, dall’altro chi difende il monopolio statale in settori considerati strategici.
Del primo schieramento fa parte il premier uscente Wen Jiabao che, dopo essere stato per anni conosciuto soprattutto come “volto umano” del potere (quello che andava a stringere mani e a versare lacrime sui luoghi delle disgrazie), negli ultimi due si è trasformato in un vero e proprio “kamikaze delle riforme di mercato”.
È sua per esempio la spinta decisiva per rendere Wenzhou “zona finanziaria speciale”. La mancanza di credito ai piccoli imprenditori in crisi stava mandando in rovina la città simbolo del business privato. Così si è parzialmente legalizzato il credito sommerso, creando fonti di finanziamento alternative alle grandi banche di Stato.
Non è per altro escluso che il recente attacco al premier uscente, per interposto New York Times, sia proprio un capitolo della guerra in corso. Kamikaze Wen, appunto. Più attendisti, ma altrettanto determinati, sarebbero secondo i bene informati i due futuri líder máximo, Xi Jinping e Li Keqiang.
La corrente dei privatizzatori sembrerebbe quindi vincente, ma deve affrontare la resistenza diffusa di chi nelle grandi imprese di Stato ci è nato è cresciuto. Nel comitato centrale del Partito siedono infatti ventitrè tra amministratori delegati e presidenti di grandi Soe.
È questo il caso di Liu Zhenya, Ceo della State Grid Corporation che, oltre a essere la più grande utility dell’energia elettrica del mondo, è settima nella classifica “Global 500” di Fortune. Ha un milione e seicentomila dipendenti, distribuisce energia a un miliardo e 100 milioni di persone e copre circa il novanta per cento del territorio cinese.
Secondo quanto riportato da Bloomberg, Liu ha di recente colto l’occasione di un blackout che ha afflitto l’India per convocare una conferenza stampa e affermare che in Cina tutto funziona bene proprio grazie alla cura dell’interesse pubblico da parte dell’azienda che amministra e, più in generale, da parte delle grandi imprese di Stato.
Curiosamente, la State Grid nasce proprio dallo spezzatino del precedente monopolista di Stato, la State Power Corporation, avvenuto nel 2002.
I giganti petroliferi Sinopec e China National Petroleum sono invece rispettivamente la quinta e sesta impresa mondiale per ricavi. Delle 70 imprese cinesi che Fortune ha inserito nella classifica planetaria citata prima, 65 sono di proprietà statale. Sull’altro piatto della bilancia c’è però il fatto che il settore privato è quasi per intero responsabile della più recente crescita occupazionale.
Il punto fondamentale è quello dell’efficienza. Da un lato i liberisti-privatizzatori che additano i giganti pubblici come ricettacolo di corruzione e, in quanto monopoli, ostacoli alla concorrenza, cioè all’innovazione e a una competizione anche sui prezzi che andrebbe a tutto vantaggio degli utenti.
Dall’altro lato, i boiardi di Stato sostengono invece che è proprio il controllo politico che rende i colossi pubblici avanguardia della penetrazione cinese sui mercati internazionali. Non solo: proprio la natura statale delle grandi imprese fa sì che abbiano a cuore l’interesse collettivo prima di quello privato.
Le grandi imprese di Stato hanno vissuto un primo processo di ristrutturazione alla fine anni Novanta, quando le più inefficienti furono spezzettate con ricadute dolorosissime sul mondo del lavoro. Intercettando e facendosi interpreti del boom cinese, le Soe hanno vissuto un nuovo periodo di gloria nei primi dieci anni del nuovo millennio quando sul piano nazionale hanno visto aumentare i profitti netti da 320 miliardi di yuan (51,2 miliardi dollari) a 1.900 miliardi di yuan, con una crescita del 25,2 per cento l’anno tra il 2003 e il 2011.
Oggi il problema si pone di nuovo. il China Daily sponsorizza una nuova riforma di mercato ricordando che la Cina sta cercando di trasformarsi da Paese export-oriented a economia che sempre più fa affidamento sui consumi interni come traino della crescita.
E quindi “ci sarà bisogno di maggiore concorrenza nei settori chiave che sono attualmente dominati da imprese di Stato per fornire ai consumatori servizi e prodotti migliori”.
Il cinese-operaio ha già lasciato il posto al cinese-consumatore. Le grandi imprese di Stato sono chiamate all’autoimmolazione per il bene della Cina.