Un’altra campagna – Il lavoratore della cultura

In by Simone

Campagna-città, andata e ritorno. Un ritratto di Ou Ning, intellettuale poliedrico e rivoluzionario, così cinese e così aperto al mondo

Si definisce “lavoratore della cultura” ed è uno che soppesa le parole. In quel “lavoratore” c’è la sua origine contadina e le sue idee di sinistra, in “cultura” c’è il campo d’azione nel quale ha deciso di muoversi per vivere la transizione cinese. Messi insieme, i due termini creano un concetto volutamente vago, aperto, l’unico in grado di riflettere l’instancabile attività multidisciplinare di Ou Ning: design, architettura, cinema, videoarte, poesia, narrativa, saggistica. Di volta in volta, lui può essere indifferentemente autore, curatore o editore.

Nato nel 1969 a Zhangjiang, Guangdong, Ou ama ricordare nella propria biografia di avere fondato da attivista U-thèque, “un’organizzazione indipendente di cinema e video”. 

Da curatore, dopo aver assunto diverse cariche in festival ed eventi locali e nazionali, sovrintende (dal 2009) la biennale di Shenzhen & Hong Kong di Urbanistica e Architettura ed è stato nella giuria della 53esima Biennale di Venezia.
Come editore, ha fondato nel 2011 la rivista bimestrale Chutzpah (Tian Nan in cinese), che esce con numeri monotematici in cui si pubblicano emergenti cinesi e si traducono scrittori stranieri: tra i temi già affrontati, “Sesso” e “Rivoluzione”, giusto per farsi un’idea.

Da artista, Ou ha prodotto soprattutto “progetti di ricerca sull’ambiente urbano”, come San Yuan Li e Da Zha Lan, operazioni dal respiro internazionale (commissionato dalla 50a Biennale di Venezia il primo, dalla Kulturstiftung des Bundes il secondo). Siamo in un territorio a cavallo tra la la videoarte e il documentario. Prendiamo Da Zha Lan, arrivato da noi nella forma del docufilm Meishi Street: Ou Ning affida una videocamera al signor Zhang Jinli, che lotta contro la requisizione e demolizione della propria casa in un quartiere di hutong a Pechino. Il protagonista-regista riprende in soggettiva tutta la propria lotta nel nome della “giustizia socialista”, si filma mentre canta a squarciagola vecchie arie maoiste sul tetto della casa, fa esplodere la contraddizione tra le sue ragioni, che sono quelle del popolo, e l’operato di chi, nel nome del popolo stesso, lo caccia di casa.

Parlandone in un incontro a Milano, Ou ha spiegato questa idea così semplice e al tempo stesso geniale: “Il signor Zhang ha trasformato la videocamera in un’arma”. Il video si fa performance e questa, a sua volta, si fa politica.

Il percorso di Ou Ning si svolge tutto a cavallo tra dimensione istituzionale – la cosiddetta “industria culturale di Stato" – e produzione underground, forse l’unica strategia possibile per sopravvivere e al tempo stesso deviare il corso degli eventi nella Cina contemporanea. Ma da che parte lui stia veramente, ce l’ha chiarito di recente: “Non mi piace l’industria creativa, quando la cultura diventa industria perde il suo stato originale di energia e tende alla commercializzazione. Che si sia a Liverpool, Londra, Hong Kong, Pechino o Shanghai, tutti i governi parlano sempre del settore culturale. Non mi piacciono queste politiche culturali, ho sempre ammirato la cultura popolare. Allo stesso tempo, in questi ultimi anni ho anche accettato molte posizioni ufficiali sponsorizzate dal governo. Ma mentre loro hanno bisogno di cooperare con me, è evidente che le mie idee sono del tutto differenti dalle loro e sono finora riuscito a mantenere indipendenza di pensiero. Credo ancora che lo sviluppo culturale debba essere libero e non guidato dal governo”.

La novità di questi giorni è che Ou ha vinto il “premio per l’innovazione” del Wall Street Journal-China (con il suo amico artista Zuo Jing), grazie al progetto della “Comune di Bishan”: la sua ultima “opera” e quello che spiega quindi meglio quale sia la “missione” per questa fase. “Un gruppo di intellettuali che – nelle sue parole – si dedica al movimento di ricostruzione rurale in Cina” e che si raccoglie attorno a una casa che il “lavoratore della cultura” ha comprato nell’Anhui. Naturale corollario di questa attività sono due festival, punto d’incontro tra gente della città e gente della campagna: il Bishan Harvestival e il Yixian Photofestival.

In una recente intervista, Ou ci ha meglio chiarito il suo progetto parlando dei problemi legati allo sviluppo urbanistico di Pechino, la città in cui ha operato per oltre vent’anni: “Il traffico, la qualità dell’aria, troppe persone. In un futuro ideale, per risolvere realisticamente questi problemi, molte persone dovranno lasciare questa città in modo che diventi più vivibile. Perché io voglio andare in campagna per continuare il mio progetto? Oggi c’è un grande conflitto nel rapporto tra città e campagna, se sempre più persone sceglieranno di vivere in campagna, ci sarà meno bisogno di essere compressi all’interno delle città, e di conseguenza non ci saranno più così tanti problemi per la città. Il futuro di Pechino sono i processi di contro-urbanizzazione”.

E per quanto riguarda le campagne? Qui il discorso si fa ancora più serio, perché la Cina rurale sconta ormai da trent’anni lo sviluppo diseguale del Dragone.

“Ho avviato una ricerca storica sui problemi di quella terra da un centinaio di anni a questa parte”.
A Bishan, Ou ha cominciato a raccogliere un database di tutte le tradizionali competenze locali: la produzione alimentare, di tessuti, l’arredamento d’interni, l’architettura e la carpenteria. Ha rintracciato le persone che ancora le possiedono e, aiutandole a realizzare quei prodotti che il nuovo ceto medio urbanizzato vorrebbe acquistare, intende creare una base economica per le comunità rurali. Qui entrano in gioco i suoi amici “cittadini”: artisti, scrittori, designer e architetti. Coloro che conoscono la città, possono aiutare i contadini a conquistarla. “Vorrei fare un esperimento – scrive ancora – che va al di là di una semplice comune di artisti: trasferire lavoro da Pechino alla campagna in modo che più gente possa ritornare alla terra. Già lo fanno molti giovani, e qualche volta anche gli intellettuali. Io vorrei coinvolgere queste due componenti nel mio esperimento dell’Anhui”.

Il ritorno degli intellettuali alla terra ricorda la Rivoluzione culturale, ma qui i problemi sono quelli della Cina contemporanea: “Se tutto è urbanizzato, diventa insipido, tutto uguale, e non c’è diversità”, continua Ou. Tradotto: l’innovazione – anche politica – di cui il suo Paese ha così bisogno, può sorgere da questo nuovo incontro città-campagna.

Soprattutto non c’è, nella nuova “comune popolare”, un grande timoniere che ordina e sovrintende dall’alto. È una interpretazione dal basso della tanto strombazzata società armoniosa di matrice confuciano-governativa.

Bishan è un progetto politico? Sì, sicuramente, se facciamo nostra la sottile distinzione tra “politica” e “politico”: i riti, gli apparati, il discorso specialistico dei professionisti della politica, nel primo caso; una dimensione che permea tutto l’agire umano, nel secondo.

È proprio questo che colpisce di Ou Ning. La sua capacità di piegare sulla dimensione del politico tutta la sua molteplice attività culturale. Ricorda altri intellettuali di casa nostra, chiamati “cattivi maestri” perché la storia la riscrive chi vince.

Ma Ou – questo è un augurio e una speranza – si muove con più sottigliezza di quegli sconfitti. Prendete per esempio come è stato tradotto in cinese il termine “anarchismo” (senz’altro una delle filosofie che ispirano l’intera produzione di Ou Ning) sul sito del Buffalo Institute: Annaqi zhuyi, una tradizione puramente fonetica che si sottrae agli imbarazzi politici che avrebbe potuto generare il tradizionale Wuzhengfu zhuyi (alla lettera, “dottrina del senza governo”). Il lavoratore culturale soppesa le parole.