Asiaticafilmmediale – Demistificare la primavera araba

In by Simone

Visioni dalla tredicesima edizione di AsiaticaFilmMediale. Una finestra sul cinema asiatico che anche quest’anno, tra il 5 e il 13 ottobre negli spazi del Macro di Testaccio a Roma, ha gettato uno sguardo sulla cinematografia di oltre venti paesi.
Una delle sorprese più piacevoli della tredicesima edizione di AsiaticaFilmMediale è stato l’approfondimento sul cinema del mondo arabo. In molti si interrogano sullo stato di salute della cinematografia in paesi tristemente saliti alla ribalta internazionale durante l’ultimo decennio.

Ascesa dell’estremismo islamico, invasione di Iraq e Afghanistan, rivoluzione dei gelsomini e proteste di piazza, fino agli scontri in corso in Siria in questi giorni. Ce n’è quanto basta per rendere il cinema arabo un riflesso importante dei nostri tempi.

L’organizzazione del festival ha portato a Roma una selezione in cui il tema dominante è stato quello della testimonianza diretta di eventi storici, concentrati soprattutto sulla strettissima contemporaneità. Otto titoli e altrettante storie, proiettate su Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Iraq e Siria. Società tradizionalmente ritenute chiuse, specialmente all’Occidente, e penetrate da riprese il più delle volte con intento documentaristico, facendo leva sulla forza intrinseca delle immagini.

È questo un merito tanto più ampio considerando che ci troviamo in luoghi da cui ben di rado riescono a pervenire le voci della gente che vive realmente occupazioni, guerre, tensioni sociali e rivolte politiche, malgrado l’elevato numero di notizie trasmesse dai media nostrani.

In origine, a creare attesa era stato soprattutto il lavoro di Bassam Mortada con Reporting a Revolution (Althawra… Khabar) dall’Egitto, paese simbolo della primavera araba. Simbolo per tanti motivi, per la sorpresa che ha destato la caduta di Mubarak, per la funzione svolta dai social network durante la protesta, per l’immagine di libertà evocata dalla Piazza Tahrir e dal coraggio dei giovani scesi e rimasti in piazza anche dopo l’avvento militare.

Althawra… Khabar è una delle primissime testimonianze dirette che il cinema ci rende di un evento di grande valore storico. Documentario che non si limita a raccontare e a dare immagini inedite di diciotto giorni di rivolta all’inizio del 2011, ma che mira anzitutto a esplorare l’ideale e la missione di sei reporter, tre uomini e tre donne, intenti a riportare la repressione su vasta scala avvenuta in quei giorni.

Vengono approfonditi il loro lavoro e i loro tentativi di rimanere incolumi. Viene colto il momento in cui i sei smettono di essere giornalisti per divenire loro stessi partecipanti della rivoluzione.

Althawra… Khabar è quindi una storia di reporter d’inchiesta, ancor prima che documentario delle proteste. Ma è anche storia di un paese che decide di protendere verso il futuro, come dimostra proprio l’impegno dei media nel documentare la protesta.

O come testimonia anche l’incredulità dei manifestanti in piazza nel subire la repressione, realizzando fino a che punto la polizia egiziana si sarebbe potuta spingere contro il proprio popolo. Proprio perché testimonianza di una rivoluzione, Althawra… Khabar è uno sguardo appassionato e pieno di idealismo.

A mostrare un’altra faccia della primavera araba ci pensa Back to the Square, del regista ceco Petr Lom, una vecchia conoscenza per il pubblico di Asiatica. Anche il suo è un lavoro votato alla realtà, questa volta però con l’intento di demistificare la rivoluzione egiziana. Il motivo di base è quello del ritorno in Egitto, dopo la caduta di Mubarak, per vedere i frutti della rivoluzione.

Lom è specializzato nella realizzazione di documentari in giro per il mondo, tra gli altri ha girato in paesi come Kirghizistan o Iran. Con Back to the Square, ha voluto dare voce a quegli egiziani emarginati dalla rivoluzione, osteggiati dal post-rivoluzione e dall’ordine ristabilito.

Nel voler mantenere uno stato di polizia, le autorità sembrano operare in un precario equilibrio, che poggia sull’impossibilità di deligittimare completamente l’azione dei giovani manifestanti e l’intento di emarginare gli strati più deboli o pericolosi del tessuto sociale rivoluzionario.

Che siano poveracci a cui è stato vietato di “importunare” i turisti stranieri portandoli a cavallo intorno alle Piramidi, o manifestanti incarcerati e messi in isolamento (su tutti il blogger Maikel Nabil, condannato a tre anni) poco importa, il successo della primavera araba è tutto restituito alla sua reale complessità.

Il documentario apre uno squarcio su storie di ordinario abuso, come quella di un guidatore abusivo di pullmini, incarcerato prima della rivolta e ricattato dalla polizia (sotto tortura mediante acido) nel dopo rivolta, per incastrare i manifestanti rimasti in Piazza Tahrir. O in quella di Salwa al-Husseini, coraggiosa e progressista manifestante che prosegue nella protesta, anche dopo essere stata incarcerata, umiliata durante la prigionia ed emarginata dalla comunità del suo villaggio al suo rilascio, per le cattive voci messe in giro dalla polizia sul suo conto.

Professa il cinema della realtà, Lom, e il simbolo della sua regia è tutto in una scena: la camera indugia su una manifestante vestita di nero dalla testa ai piedi con i soli occhi scoperti. La donna tiene un cartello di protesta con scritte in arabo e un altro manifestante di passaggio, non appena vede la camera, abbassa il cartello in modo che il volto della donna ne venga coperto.

A Petr Lom fa eco Amer Alwan, regista di Goodbye Babylon, iracheno di nascita ma specializzatosi in Francia. Racconta di un cinema iracheno che fatica a risorgere dalle ceneri della guerra. Il Ministero della Cultura si è impegnato a produrre sei film per il 2013, un numero che lascia pochi dubbi sulla vitalità dell’ambiente cinematografico nel paese colpito dalla guerra.

Come per Lom, il cinema di Alwan si divide tra slancio verso il reale e demistificazione. In questo caso la sua è una voce che viene dall’Occidente per tornare all’Occidente. A parlare sono soprattutto Frank O’Farrell, arruolatosi volontariamente dopo l’attentato alle torri gemelle perché convinto di voler fare qualcosa per il suo paese, e la sua amicizia con un interprete del posto, Dyar, in seguito rimasto ucciso.

Un ruolo delicato quello degli interpreti iracheni: disprezzati dai connazionali e diffidati dai soldati americani, gli interpreti hanno però la responsabilità –come evidenziato da una testimonianza lasciata da Dyar- di spiegare agli invasori una terra altrimenti sconosciuta.

Alwan ha confessato di non padroneggiare l’inglese e si è lanciato nella regia non conscio del significato delle dichiarazioni rilasciate dai soldati americani. Ma si è detto contento quando un accurato lavoro di traduzione gli ha rivelato l’esatto contenuto delle testimonianze raccolte.

Tre erano le ragioni per cui i soldati giustificavano la loro missione: la ricerca delle armi di distruzione di massa, l’abbattimento di un regime amico dei talebani afghani e la cacciata di un dittatore. Dopo aver scoperto che le prime due erano fabbricazioni, la terza non bastava più per giustificare l’invasione.

O’Farrell si dice contento di avere avuto la fortuna –a differenza di altri soldati- di partecipare esclusivamente a operazioni di supporto civile e a scopo umanitario, tuttavia il contrasto tra la sua vita normale al ritorno negli Stati Uniti e la situazione lasciata in Iraq ha lasciato nella sua mente molti punti interrogativi.

In questo le scelte di regia di Alwan, che alterna abilmente riprese di tranquilla vita domestica made in the U.S. in casa O’Farrell con quelle di perquisizioni imposte ai civili iracheni, sanno dare un’immagine e un significato ai turbamenti del sergente americano.

Sono stati proiettati anche altri film che meritano citazione, a partire dall’algerino Zabana! del regista Saïd Ould Khelifa, che riporta sugli schermi l’eroe della guerra di liberazione algerina, per arrivare a It Was Better Tomorrow (Ya Man Aach), della regista Hinde Boujemaa, che ritrae la vita di una donna sconvolta dalla primavera araba in Tunisia, e a Did You Say Damascus? (Damas, au péril du souvenir), della siriana Marie Seurat, nostalgico racconto sospeso tra il passato e il presente di uno dei paesi più presenti nei titoli di giornale del 2012.

Immagini preziose, che vanno oltre un valore meramente cinematografico, in quanto sono tra le prime testimonianze dirette date dal cinema di una pagina di storia che scopriamo di giorno in giorno sempre più tragica. Aiutano a capire quanto possa essere complesso giustificare o condannare la transizione democratica che stanno vivendo i paesi arabi a partire dal 2001.

Dopo la proiezione del documentario, una spettatrice ha chiesto ad Alwan se Goodbye Babylon fosse stato proiettato negli Stati Uniti; lui ha risposto di aver proposto il film a diversi festival, ma nessuno, finora, lo ha selezionato.

[Foto credit: art24.info]