Trascorsi cinquant’anni, le dispute territoriali tra Cina e India sono ancora irrisolte. Le due superpotenze trattano e ogni tanto raggiungono qualche accordo. Resta tuttavia la militarizzazione delle regioni contese. Senza un accordo il rischio che i due giganti continuino a dividersi resta alto.
Appena otto giorni fa, con l’avvicinarsi del cinquantesimo anniversario del conflitto sino-indiano, il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hong Lei, enfatizzava la speranza di Pechino di vedere risolte le dispute territoriali con Delhi passando per un negoziato amichevole.
Nel consueto incontro settimanale con la stampa, Hong usava tutto l’armamentario retorico tipico del discorso diplomatico cinese in questi casi. Un lessico fatto di mutua fiducia, entusiasmo, relazioni pacifiche, futuri luminosi. La stampa indiana, che all’anniversario ha dato più risalto rispetto ai cinesi, non ha mancato di riportare le parole del portavoce.
Le due potenze asiatiche tuttavia si parlano da oltre trent’anni. I colloqui si apprestano a entrare nel loro sedicesimo round, mentre sulla definizione dei 4.000 chilometri di confine himalayano tra i due Paesi, la cosiddetta linea di controllo effettivo, ancora non è stata fatta chiarezza.
I maggiori punti di frizione sono alle estremità orientale e occidentale. A Ovest l’area contesa fa parte dell’Aksai Chin, desolata regione che per Pechino funge da corridoio tra il Tibet e lo Xinjiang di fatto amministrata dalla Cina, che Delhi rivendica come parte del distretto di Ladakh, nella provincia del Jammu e Kashmir.
Spostandosi all’estremità Est della linea, l’altra area contesa è quella dell’Arunachal Pradesh, di fatto indiana ma che Pechino considera come il Tibet meridionale . Tanto che nel 2009 la visita nella regione del primo ministro indiano Manmohan Singh non mancò di suscitare le ire dei cinesi che, dal canto loro, non concedono visti agli abitanti della regione perché considerati connazionali.
Un passo avanti nelle disputa fu fatto lo scorso gennaio con la firma di un accordo che istituiva un meccanismo di coordinamento per permettere lo scambio di informazioni sulle dispute.
Come scrisse allora The Diplomat, l’accordo, che porta in calce i nomi dei rappresentai speciali dei due Paesi, Shivshankar Menon e Dai Bingguo, è il più importante documento bilaterale tra Pechino e Delhi degli ultimi due decenni.
Il Wall Street Journal fu meno ottimista. L’accordo sottolineò prevede incontri tra militari e diplomatici una o due volte l’anno, senza prevedere discussioni su come risolvere le dispute, ma soltanto sulla cooperazione lungo il confine.
Di negoziati che comunque stanno per entrare in una fase finale, ha parlato nei giorni scorsi anche il ministro delle Difesa indiano, Arackaparambil Kurien Antony, senza tuttavia entrare nei dettagli dei progressi raggiunti. Intanto Delhi continua a denunciare piccoli sconfinamenti e incursioni cinesi in quello che considera il proprio territorio. Pechino investe invece in infrastrutture, soprattutto strade e ferrovie.
Il risultato per le regione, scrive l’Economist, è una massiccia militarizzazione. Negli ultimi anni non sono certo mancati passi avanti. In campo economico il volume d’affari del commercio tra i due giganti è salito dai 5 miliardi di dollari del 2002 ai 75 dell’anno scorso.
A settembre c’è stata inoltre la visita a Delhi del ministro della Difesa cinese, Liang Guanglie che ha raggiunto un accordo con il suo omologo indiano per riprendere esercitazioni congiunte.
Tuttavia, scriveva a marzo Prashanth Parameswaran sul China Brief della Jamestown Foundation, fintato che i confini resteranno indefiniti i rischi rimangono. Anche se in molti ritengono che la cooperazione possa mettere in secondo piano le dispute, risentimenti e ambizione potrebbero invece dividere i due giganti più di quanto lo faccia un confine.
Altri articoli del nostro Speciale guerra sino-indiana:
Fare i conti col passato
Un conflitto storico