Non è facile parlare di un’opera prima come Bi Ci, Shi Di (Here, Then, 2011) dell’attore e filmmaker Mao Mao, diplomatosi come molti illustri predecessori alla Beijing Film Academy.
La difficoltà nasce dal film stesso, volontariamente deragliato in una serie di situazioni statiche, uno stallo reiterato dovuto ad azioni frustrate o mancanti, interrotte e intervallate da momenti più “dinamici”, almeno dal punto di vista dialettico. È proprio il dialogo, tentato e il più delle volte abortito, la chiave interpretativa di un lavoro che in virtù dei suoi limiti riesce a dire molto della Cina e delle sue aspettative.
Nello smarrimento tra le pieghe di inquadrature che indugiano più del dovuto, nei primi – spesso primissimi – piani forse troppo autocompiaciuti, nelle derive di una certa idea di cinema d’autore rintracciamo una minuscola verità, almeno un tipo di verità che ha a che fare con il paese e il (o meglio un) suo immaginario condiviso.
L’interazione tra i personaggi avviene nel segno di conversazioni e relazioni binarie, come se si potesse gestire solo una persona alla volta. In questo scambio che è più che altro accostamento forzato – evidente nella scena iniziale dello stupro, perpetrato per noia e per inerzia, che sfinisce (e disturba) per la sua banalità priva di dramma – si intravede l’incapacità di coinvolgere e farsi coinvolgere.
La società stessa è divisa in settori sigillati e rapporti esclusivi, dove una situazione non è compatibile con l’altra: non a caso gli stessi personaggi ritornano davanti a noi ogni volta – o quasi – con persone diverse, diventando loro stessi “altri” e cambiando personalità a seconda di chi li accompagna.
C’è un’instabilità costante ma anche la continua frustrazione del vero mutamento: nell’affannosa ricerca di posti e persone che facciano stare meglio, o solo diversamente, quello che si perde di vista, come sempre accade, è la ragione dell’affanno. Ma anche il suo punto di partenza. Quelle descritte sono identità allo sbando, che la vita e il suo susseguirsi di incontri/rapporti allontanano da loro stesse. Così quello che dovrebbe riempire (amicizia, lavoro, soldi, sesso) non fa che svuotare.
La politica del figlio unico fa sentire tutto il suo peso in un film come questo, girato quasi sicuramente da un figlio unico, che racconta di aver deciso di realizzare il lungometraggio alla fine di un periodo di profonda incapacità comunicativa. Come lui, i personaggi spiati ma anche inseguiti da una videocamera empatica e indulgente, non sono più abituati a intessere rapporti, nell’univocità dell’interpellazione dell’individuo (parte di una collettività) da parte del sistema-paese.
Il ritorno delle stesse persone in “combinazioni” diverse conferisce all’opera un andamento pulsante. La sua struttura circolare si apre con l’incontro in una località balneare di Xiao Bin e e dell’amico Xiao Chao con due ragazze, delle quali solo una, Yang Yang, verrà “seguita” a Pechino, dove l’azione si sposta; si chiude nello stesso posto di mare, con un personaggio femminile silenzioso che si arrampica sulla struttura di un edificio in costruzione per contemplare l’orizzonte.
Tra l’inizio e la fine una successioni di momenti di inerzia e personaggi altrettanto inerti: il fotografo Zhao Wei, che sembra ossessionato dalle donne e insegue incontri occasionali con giovani prostitute, e la sua ex, una ragazza che non fa che lamentarsi dell’aria secca delle camere d’albergo, vivendo nel rimpianto di amori perduti e facendosi consolare dai regali costosi dell’uomo di cui è amante.
L’alienazione generale viene amplificata dalla tecnologia: le conversazioni al cellulare sono solo una parodia di comunicazione (a distanza) e le macchine fotografiche che dovrebbero catturare la vera natura delle cose finiscono per mistificarla del tutto. L’ossessione per le immagini è centrale e le foto preludono a mondi possibili che di fatto precludono, perché il confronto con una realtà da rimuovere non può che deludere.
In questo strano universo frammentato che si fa fatica a chiamare “Cina”, tra suonerie che squillano all’infinito e azioni apparentemente inspiegabili, l’unico personaggio che sfugge alle regole dell’assoggettamento – anche sessuale – è l’anonima donna solitaria del finale, forse collega del fotografo, che si mette alla ricerca delle ville vista mare pubblicizzate su un volantino dello studio, per scoprire che queste non esistono ancora: il “reale” resta sospeso da qualche parte tra l’oggetto concreto e la sua immagine, così nel caso delle procaci ragazze di altre foto.
Per parafrasare Geremie Barmé, nella Cina di oggi tutto appare interessante ma poco sembra avere davvero significato: potremmo dire che il film è in bilico tra il costituire esso stesso l’applicazione di questo assioma e il rappresentarlo nelle azioni poco significative di persone che cercano qualcosa in modo talmente arreso da risultare intollerabile.
I giovani cinesi di oggi sono strane creature, descritte da Mao Mao con un occhio contemplativo che ricorda Antonioni (come fa notare l’artista concettuale Luigi Ontani a fine proiezione) ma anche, soprattutto, il regista tailandese Apichatpong Weerasethakul (Tropical Malady, Lo Zio Bonmee), per Mao Mao un modello di riferimento, segno che le cinematografie asiatiche sono diventate referente fondamentale per il cinema cinese.
[foto credits: tumblr.com]*Mariagrazia Costantino ha frequentato un Master in Media and Film presso la SOAS (School of Oriental and African Studies) di Londra e ha da poco conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Cinema presso il Dipartimento di Comunicazione e Spettacolo dell’Università di Roma Tre. È coautrice di Arte Contemporanea Cinese (Electa) e ha contribuito alla stesura del testo World Film Locations: Beijing.