La necessità di informazione, comunicazione e condivisione, personale e collettiva, è la spinta creativa. Questo è uno spazio dedicato a uno tra i personaggi più influenti dei nostri tempi: Ai Weiwei, l’uomo, l’artista, il dissidente. Perché la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione. E fu così che dopo tutte le varie spiegazioni del perché e non perché ‘Fake’, dadaaaan: il Fake non c’è più.
Prima di scrivere qualsiasi notizia o aggiornare qualsiasi blog, ho voluto aspettare di rientrare dalle grandi vacanze per chiedere conferma personalmente a Weiwei o a chi fosse meglio informato di me. Stasera l’avvocato Liu Xiaoyuan, amico di Weiwei, era nel mio ufficio a combinarne un’altra delle sue: si faceva fotografare di fronte alla scritta ‘Fuck’ illuminata, ma presto vedrete la foto circolare sul web. Così gli ho chiesto informazioni riguardo i fatti. Alla mia domanda: “Allora la nostra compagnia Fake..” non mi ha lasciato finire: “Mei le (non c’è più)! Addio Fake!”
È stato proprio l’avvocato (che da quello che mi raccontano in questo momento non può esercitare la sua professione perché il governo cinese glielo ha definitivamente impedito), il primo ottobre, a dare la notizia sul web. In quei giorni io ero in vacanza ma ho subito chiesto al mio compagno di viaggio, nonché collega, che abita al Fake (ehm, all’ex Fake) e che mi ha confermato che Weiwei aveva firmato per la ‘chiusura’ della compagnia.
Non avevo ancora letto le interviste da lui rilasciate ai vari giornali, ma la prima sensazione che ho avuto, di colpo, è stata che dovevano trovare un modo per porre fine a questa situazione. Lo hanno trovato addirittura durante i giorni di festa nazionale, quando nessuno avrebbe puntato i riflettori su nessuna notizia.
Due settimane fa, dopo la sconfitta definitiva di Weiwei al processo l’artista aveva detto che non avrebbe avuto, e tuttora non ha, la minima intenzione di pagare la restante parte della multa che il governo gli ha imposto per ragioni tuttora sconosciute, portando avanti un processo svolto nella completa illegalità. Aveva poi aggiunto che, secondo lui, nessuno avrebbe mai trovato il coraggio di recarsi a casa sua per chiedergli il milione di euro ancora non pagato: sarebbe stata troppo grande la vergogna, data la consapevolezza dell’infondatezza di tutta la causa.
E così sembrerebbe sia stato. Nessuno ha ovviamente chiare quali siano le intenzioni del governo cinese; ma pochi giorni dopo il processola polizia si è recata a casa di dell’artista e ha dichiarato chiusa la compagnia, aggiungendo che la compagnia Fake quest’anno non ha effettuato la regolare registrazione annuale. Cosa più che ovvia, dato che quando Weiwei è stato arrestato il 3 aprile 2011 la polizia ha confiscato materiale e documenti per cui non vi è stato modo di fare altrimenti.
Motivazione ufficiale, quindi: scadenza di termini burocratici. A questo punto, quello che si pensa è che probabilmente nessuno richiederà di pagare la restante somma di denaro. E’ il Fake ad aver perso il processo ed il Fake, guarda un po’, magicamente non c’è più.
Se così fosse, per la prima volta dall’inizio del caso, il governo cinese avrebbe trovato una maniera ‘intelligente’ di gestire la situazione. Questa agonia sta andando avanti da troppo tempo, i danni che Weiwei ha causato al governo cinese agli occhi del mondo sono troppi. Danni fatti solamente parlando e continuando imperterrito nei ricorsi in tribunale. Lui sì che l’ha saputa gestire la situazione. L’unica cosa che voleva era il processo.
Voleva il processo per poter dimostrare al mondo intero come questo sarebbe stato gestito. Lui sapeva già come sarebbe andato a finire. Voleva il processo perché aveva la certezza che sarebbe andato avanti fino allo strazio, così da mostrarlo agli occhi del mondo intero. Voleva il processo per perderlo.
Una volta sul mio blog scrissi che il gioco stava diventando pericoloso, al limite dell’assurdo. Ogni volta che si perdeva un processo – e io ne sono testimone di due – si tornava a casa da vincitori. Tutti i miei colleghi dicevano che la vera vittoria era perdere, cosicché tutti potessero vedere e comprendere a quali livelli arrivino corruzione e ingiustizia in un paese dove un sistema giudiziario, praticamente, non esiste.
Il giorno del ‘mio primo processo’ al Fake, al mio collega era stato impedito di raggiungere il tribunale (Weiwei era a casa,era stato impedito anche a lui, ma questo era scontato) per poter dare sostegno morale a Weiwei assistendo dal di fuori, ovvero da un piazzale. La sera prima la polizia aveva telefonato a suo padre (che in questo momento ha in piedi una causa per motivi di lavoro con una ditta che non lo ha pagato) e gli aveva detto: "Sappiamo che tuo figlio lavora per Ai Weiwei. Digli di non presentarsi fuori dal tribunale domani o tu potrai scordarti di vincere la causa".
Quello stesso giorno un altro mio collega veniva picchiato per trovarsi lì fuori. Quando la moglie di Weiwei telefonò per dire che il processo era stato perso, molti non sembravano contenti, ma quasi. Solo Weiwei, preso dalla rabbia del momento, diceva: "Ma che mondo assurdo è se io devo gioire per aver perso un processo contro di me". Lì capii che il gioco si faceva pericoloso e il mio collega mi disse: "Abbiamo perso, ma abbiamo vinto con il cuore. La battaglia è appena cominciata, continueremo". E fu così che ci fu anche il secondo ed ultimo processo di ricorso da parte di Weiwei, appunto definitivamente perso.
Weiwei voleva tutto questo, perché era l’unica maniera per aprire gli occhi a tutti e puntare i fari sulla ‘giustizia’ cinese. Nonostante alla fine di tutto anche lui ne sia rimasto sconvolto. Ha detto che sicuramente si aspettava tutte queste corruzione ed arbitrarietà, ma non in maniera così infima, ridicola: fino a non avvertirlo del processo che ci sarebbe stato dopo tre giorni per far in modo che il suo avvocato fosse in viaggio e non si trovasse a Pechino per poterlo difendere.
Un Ai Weiwei amareggiato ha dichiarato, alla fine, che non si sarebbe mai aspettato che sarebbero caduti così in basso. Lo stesso Ai Weiwei, il giorno dopo del processo, a pranzo mi diceva che non riusciva a capacitarsi di come il governo possa essere così tremendamente stupido, dato che lui aveva ricevuto decine e decine di articoli tramite e-mail, scritti su di lui sul processo del giorno prima da giornali di tutto il mondo. Era sconvolto lui stesso dai numeri e da come non si riesca a capire che questo caso è stato creato solo ed esclusivamente da loro.
Sembra averlo capito, finalmente, il governo cinese: mettere un punto il più veloce possibile e nella maniera più ‘indolore’ a questa situazione, che ormai li ha ridicolizzati agli occhi del globo e che ha permesso ai giornalisti di chiamarli: ‘il regime cinese’. C’è solo un problema, anzi ce ne sono due.
Primo: è un po’ troppo tardi. Weiwei si collega con la webcam quasi una volta al giorno, in diretta con ogni stato del mondo dove si trasmette il documentario Never Sorry che parla della sua storia. Ormai Weiwei è un’idea, è un’icona, è un’immagine. E’ tardi, tardissimo.
Secondo: il mio collega, oggi, al mio ‘Addio Fake, il Fake non c’è più’ rispondeva che ‘noi ci siamo, i gatti ci sono, ci siamo tutti’. Come dargli torto. Il Fake lo potete anche chiudere, ma come qualcuno mi diceva: ‘la casa è fatta dalle persone, non dalle mura’.
E soprattutto: io adesso non voglio immaginare che nuovo nome lui troverà per la compagnia. E penso solamente che stavolta ve la siete cercata.
*Eleonora Brizi ha 27 anni e vive a Pechino. Ogni mattina apre la porta verde del n° 258 di Caochangdi, FAKE studio. Qui lavora per e con Ai Weiwei. Il suo blog è Dacci oggi il nostro Aiweiwei quotidiano.