I vertici cinesi hanno passato un emendamento che obbligherà gli ufficiali superiori dell’Esercito di Liberazione ha rendere noti i loro patrimoni alle autorità di controllo. La riforma arriva sull’onda del crescente sdegno dei cittadini per la corruzione, ma potrebbe nascondere dei fini politici. Per combattere la corruzione dilagante, i vertici militari in Cina hanno approvato un emendamento secondo il quale gli alti ufficiali delle forze armate dovranno rendere noti i propri patrimoni alle autorità di controllo.
Si tratta dell’ennesima mossa in direzione di una maggiore trasparenza dei potenti cinesi: movimenti anti casta, da tempo infatti, chiedono anche ai politici di rendere pubblici i propri patrimoni.
La corruzione costituisce uno dei punti più deboli dell’intero sistema cinese. Ogni giorno si procede ad arresti e inchieste che vanno a colpire politici, imprenditori e spesso anche membri dell’esercito.
Dopo varie proteste, compresa una straordinaria petizione firmata da 180 persone, l’esercito, pare su indicazione del presidente Hu Jintao, ha deciso di provvedere a stabilire una regola che preveda di rendere noti i patrimoni degli alti ufficiali.
La corruzione nelle file dell’esercito cinese – che ancora conta moltissimo negli equilibri politici del paese – è un fenomeno rilevante.
I media di Hong Kong, più liberi di criticare rispetto a quelli continentali hanno scritto infatti che “l’Esercito di liberazione popolare – e soprattutto la sua leadership di alto e medio livello – è stato afflitto da scandali legati alla corruzione che hanno rovinato l’immagine dei militari sia in patria sia all’estero”.
Due casi divennero emblematici: il generale Gu Junshan, “licenziato dal suo posto come capo del Dipartimento generale per la logistica dell’Esercito di liberazione” ed indagato perché scoperto a prendere tangenti, dato che spesso gli alti ufficiali gestiscono progetti di business, che fruttano molti soldi, grazie ai contatti e alle relazioni che vengono sviluppati in quanto membri dell’Esercito.
L’altro caso si riferisce a Zhang Musheng, ricercatore nel settore dell’agricoltura vicino alle alte sfere dell’esercito, secondo il quale “un generale proveniente dallo Shanxi avrebbe acquistato del terreno nel cuore di Shanghai a 20 milioni di yuan e lo avrebbe rivenduto ad un uomo d’affari per due miliardi di yuan”.
La notizia circa la pubblicazione dei redditi è stata riportata direttamente dal People’s Liberation Army Daily, secondo il quale i nuovi regolamenti richiedono agli ufficiali di “registrarsi e fare rapporto agli organi di controllo sui propri patrimoni, proprietà e investimenti”.
Secondo analisti locali la mossa pare sia stata fortemente voluta da Hu Jintao: nel momento di passaggio dei poteri, l’attuale presidente pare stia giocando tutte le sue carte per lasciare a Xi Jinping il campo aperto e libero da potenziali nemici.
E nell’esercito, la forza di Jiang Zemin, la cui cricca è considerata avversa a Hu Jintao, è ancora tanta.
Il tentativo di rendere l’esercito cinese più trasparente è inoltre una tendenza che anima le recenti proteste anti-casta in Cina. Nel Regno di Mezzo, infatti, il potere economico e quello politico coincidono, tanto che secondo un cable del luglio 2009 rilasciato da Wikileaks, i destini economici della nazione sarebbero decisi proprio dai diritti acquisti in termini monetari, da parte dei leader politici e le loro famiglie.
La Cina sarebbe quindi in mano a gruppi diversi, a capo di imperi economici nei settori chiave, spesso in competizione e in scontro aperto tra loro.
Una situazione talmente palese, che grazie allo sviluppo di internet e la corsa del paese verso il progresso economico, ha finito per arrivare all’orecchio del popolo.
Nei mesi scorsi a Canton si svolse una protesta particolare: alcune persone scesero per strada con cartelli, nei quali chiedevano che i politici cinesi svelassero i propri patrimoni economici.
Sei persone sono state arrestate, ma la protesta ha rappresentato l’acme di alcune sensazioni che cominciano a serpeggiare nella complessa e frastagliata società civile cinese.
Tra le scritte proposte dai pochi scesi in strada c’erano: "nessun voto, nessun futuro" e "uguaglianza, giustizia, libertà, diritti umani, Stato di diritto, democrazia".
Nell’aprile scorso, inoltre, 180 utenti di internet avevano coraggiosamente firmato una petizione invitando il governo a rendere pubblici i propri patrimoni economici.
Tutti furono immediatamente invitati a bere una tazza di tè – un eufemismo per indicare una convocazione ad un posto di polizia per un interrogatorio – secondo quanto aveva affermato uno dei firmatari, Guo Yongfeng, un blogger di Shenzhen.
[Scritto per Il Fatto Quotidiano Online; Foto Credits: theepochtimes.com]