Manila sta superando Delhi in un campo tradizionalmente ad appannaggio indiano: i call center. I filippini parlano bene l’inglese, meglio dei colleghi delle Tigri asiatiche, e si stanno organizzando per controllare anche l’outsourcing di contabilità, gestione risorse umane ed assunzioni.
Il loro lavoro inizia quando quello degli altri finisce. Ogni giorno, alcune ore dopo il tramonto, mentre le sovraffollate strade delle città lentamente si svuotano, un piccolo esercito invade gli spazi urbani dell’arcipelago filippino. Da ogni parte le truppe avanzano, a piedi, in motorino, in macchina, in metropolitana o in autobus, convergendo verso i luoghi di raccolta prestabiliti: enormi palazzi alveare o piccoli prefabbricati perfettamente mimetizzati con gli edifici circostanti.
Non si tratta di caserme o di uffici dell’intelligence, ma di call center notturni, tecno-gangli che si attivano di notte per svolgere la funzione cui sono preposti: la raccolta e lo smistamento di dati e informazioni provenienti dall’altra parte del mondo, quella illuminata dalla luce del sole.
Con un numero di addetti che dovrebbe quest’anno sfiorare il milione e un giro d’affari che nel 2011 ha toccato gli 11 miliardi di dollari, dopo un inseguimento durato un lustro le Filippine hanno ormai superato ufficialmente l’India nel business dei “centri chiamate”, trasformandosi nella capitale mondiale della gestione telefonica integrata.
Negli ultimi dieci anni, nonostante le difficoltà economiche che il Paese ha attraversato, il settore dei call center ha visto crescere continuamente il proprio fatturato, trasformandosi in una valvola di sfogo per decine di migliaia di giovani senza alcuna prospettiva di impiego e per tutti quei lavoratori costretti ad arrotondare il misero stipendio mensile derivante dal loro impiego principale.
Nell’arcipelago quello nei call center è un posto ambito, nonostante gli inconvenienti collegati a un impiego che, a causa del fuso orario, viene svolto principalmente di notte.
Lo stipendio di un telefonista neoassunto può arrivare secondo il Philippines Post anche a 20.200 pesos al mese (circa 370 euro), molto di più di quello che guadagna in media un impiegato non specializzato all’inizio della sua carriera.
Inoltre, essendo un lavoro che non richiede particolari competenze, è alla portata di tutti, anche di chi ha già un impegno diurno, sia esso lo studio o un’altra occupazione.
“Sono entrata a lavorare in un call center due anni fa. Tutto sommato è stata una fortuna, perché lo stipendio non è male e posso dedicarmi ai miei interessi durante il giorno”, spiega a China Files Gloria, 22 anni, nata e cresciuta a Mindanao, dove studia arte e design.
Prima di questo lavoro Gloria faceva la commessa in un piccolo supermercato. “Era un impiego noioso e guadagnavo di meno rispetto ad adesso. Senza contare che perdevo delle ore in mezzo al traffico, cosa che di notte non succede. Chiaramente anche questo lavoro non è il massimo del divertimento, però le alternative attualmente non sono molte”.
Il lavoro di Gloria e dei suoi colleghi è organizzato su due turni. “Il primo va da mezzanotte alle quattro del mattino. Una volta preso il ritmo risulta comodo: la mattina ti alzi tardi e poi hai tutta la giornata davanti per studiare o fare altro”.
Più problematico è l’orario dalle quattro alle otto. “Un po’ ti scombussola e non ci si fa mai veramente l’abitudine. Il giorno dopo sei sempre fuori fase. Quando mi capita io vado a letto alle nove e mezza di sera e mi sveglio alle tre, poi, una volta finito, torno a casa e faccio un riposino dopo pranzo per recuperare. Non tutti però hanno questa possibilità”.
Gloria è abbastanza soddisfatta del proprio lavoro, ma lo vede comunque come un impiego temporaneo in attesa della fine degli studi, terminati i quali spera di riuscire a trovare un’occupazione nel settore del design. La sua è una situazione di relativo privilegio.
“Ci sono alcuni miei colleghi sposati e con figli, per loro è più dura. Ad esempio la mia vicina di postazione, Lucy, lo fa come secondo lavoro, perché ha bisogno di soldi per la sua famiglia, e spesso è stanca”.
Nessuno comunque lascerebbe un posto così: “Come ho detto la paga è più alta della media e in giro c’è troppa pagkawala ng trabaho, disoccupazione”. Pochi giorni fa i media filippini hanno rivelato che il relativo tasso è balzato al 34,3% nel primo trimestre dell’anno, con 13,8 milioni di adulti senza impiego.
Nel raccontare la sua storia Gloria si esprime in un ottimo inglese. Proprio la familiarità che gli abitanti delle isole filippine, ex colonia degli Stati Uniti, hanno con la lingua anglosassone rappresenta uno dei vantaggi competitivi che hanno permesso al Paese di affermarsi nel business dei call center.
I giovani filippini parlano solitamente un inglese più fluido rispetto ai coetanei asiatici, e i clienti occidentali hanno maggior facilità a interfacciarsi con loro piuttosto che con coreani o vietnamiti.
I meriti della pronuncia, tuttavia, sono a ben vedere limitati. Determinante per il successo è stato soprattutto il costo del lavoro, che i manager filippini sono riusciti a mantenere a livelli molto bassi, sottraendo ai propri concorrenti, India in testa, imprese e investitori stranieri. Un effetto calamita amplificato da una serie di invitanti incentivi fiscali stabiliti dal governo di Manila.
Nella sfida globale delle telecomunicazioni, tuttavia, vincere una battaglia non garantisce il diritto al riposo, anzi. Come ha sottolineato in una recente intervista alla Bbc Raffy David, direttore di Teleserv, una delle principali compagnie filippine attive nel settore dei call e contact center, “il business è in costante evoluzione e richiede aggiornamenti e investimenti continui per stare al passo con i tempi”.
Teleserv infatti non si occupa solo di gestire telefonate provenienti da ogni angolo del pianeta “ma gestisce anche richieste e informazioni via e-mail e la comunicazione tramite social network, da Facebook a Twitter passando per altre decine di servizi minori”.
L’ultimo investimento fatto dall’azienda riguarda appunto “un software capace di gestire in modo integrato tutti i social network, che consente ai nostri operatori di visualizzare contemporaneamente tutte le richieste in arrivo, indipendentemente dalla fonte, e rispondere in tempi molto rapidi”.
Come tutti i manager dell’arcipelago, anche Raffy David è conscio che la vittoria duramente ottenuta nel settore dei call center è già storia vecchia, e che la nuova competizione si gioca sul tavolo del Bpo. Business process outsourcing è un’espressione anglosassone che indica il processo di esternalizzazione che porta un’azienda a ricorrere ai servizi offerti da un’altra non solo per le comunicazioni ma anche per ambiti quali la gestione delle risorse umane, l’accounting, le assunzioni o la contabilità.
Gli addetti ai lavori considerano il Bpo come la naturale evoluzione dei call center, un nuovo mercato da conquistare. In questo senso a muoversi con notevole anticipo rispetto agli altri Paesi è stata l’India, dove negli ultimi anni migliaia di centri chiamate sono stati riconvertiti in centrali per la gestione del business process outsourcing, innescando un giro d’affari che solo l’anno scorso ha raggiunto i 70 miliardi di dollari.
Numeri da capogiro, che fanno naturalmente gola a tutti gli imprenditori filippini del settore, pronti a investire a loro volta nella riconversione. Secondo le previsioni di Jojo Huligan, presidente della Contact center association of Philippines, da qui al 2016 nell’arcipelago il Bpo impiegherà quasi un milione e mezzo di persone, con un ritorno economico valutabile in decine di miliardi di dollari.
La partita, dunque è aperta. A giocarla, come sempre, saranno non solo Nuova Delhi e Manila, ma tutte le Tigri asiatiche, consapevoli della crescente importanza che le telecomunicazioni rivestono nella lotta globale per il dominio del mercato.
In questo contesto a fare la differenza sarà ancora una volta il costo del lavoro, unito alla capacità di adattamento alle esigenze della clientela. Armi che le Filippine hanno imparato bene ad affilare.
[Scritto per rassegna.it] [Foto credit: planetphilippines.com]
* Paolo Tosatti è laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra.