Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
18 giugno 2010, 12:02
Mi inchino di immenso
Abbiamo fatto solo due interviste insieme. Entrambe relative al ddl intercettazioni. Entrambe piuttosto deprimenti: ogni volta si tratta solo di confermare quanto già riportato dai giornali. Non è che sia proprio eccitante. In generale imposta così tutto il lavoro: viene da me e mi domanda: “Puoi confermarmi questi dati?” e mi dà un articolo con i passi salienti annotati. È tutto un fluire avanti e indietro di carte; del resto la nostra comunicazione verbale non sembra funzioni troppo.
Alla fine delle suddette interviste, in entrambe le circostanze – e con mio discreto disappunto, specie quando lo ha fatto con il relatore del ddl – ha ringraziato tutto compito, ha accennato un inchino e ha espresso concetti come i seguenti: “Grazie per avermi dato l’opportunità di intervistarla, grazie per avermi spiegato la legge e grazie per avermi illuminato sul difficile equilibrio tra privacy e libertà di informazione” (?!?). Io volevo accucciarmi sul pavimento e iniziare a urlare.
Poi s’è già capito che la tranquillità iniziale con cui parlava di vacanze era solo di facciata. Fanno sempre così, chissà perché ancora mi faccio fregare. Prima aveva annunciato che sarebbe partito ad agosto. Aveva persino chiesto suggerimenti su dove andare in Italia. Poi ieri ha detto che lui non si prenderà nessun giorno di ferie. Ovviamente l’ha ributtata di nuovo sul fatto che io sono giornalista e quindi non posso permettermi molte ferie… tutto già risentito, tutto familiare, tristemente familiare. Tristemente è davvero avverbio giusto per questo qui: così burocratico, così cimiteriale nelle sue espressioni inespressive e piatte. Ridatemi quell’altro! Almeno ci litigavo…
Mi spaventa: da quando è in Italia, non c’è stato giorno che non l’ho trovato in ufficio. Pare che arrivi verso le 7 e non se ne vada fino alle 20. E non c’è traccia di stanchezza e di frustrazione sul suo viso, solo rigida e impassibile disciplina.
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)