Siamo ufficialmente abitanti del villaggio di Bollophur, periferia di Santiniketan, periferia di Bolpur, a tre ore da Calcutta, Bengala Occidentale. Questi sono i nostri diari.
Due settimane fa, quando l’immaginaria asticella del termometro ha toccato i 48 gradi diurni, io e Carola – che da un paio di mesi a questa parte giriamo per casa rigorosamente in mutande – ci siamo guardati intensamente.
Il mattino dopo lei è andata a prendere due biglietti per il Sikkim, lo stato a statuto speciale incavato tra Bhutan, Nepal, India e Tibet dove fa sempre fresco o freddo e dove gli abitanti locali, i sikkimesi, oltre ad essere esentati da tutte le imposte sul reddito, hanno anche l’ardire di lamentarsi dell’annessione all’Unione indiana risalente al 1975.
Annessione che, per la cronaca, è stata decretata da un referendum nel quale il 97,5 per cento dei sikkimesi del 1975 ha votato a favore.
La settimana sikkimese doveva essere una settimana di lavoro-relax a temperature umane, grazie ai potenti mezzi delle telecomunicazioni indiane che mi hanno permesso di connettermi ad internet anche a 2000 metri di altezza, ma grazie ad un fortunoso allineamento astrale sono riuscito ad ammalarmi per quasi tutto il soggiorno.
Febbre, mal di stomaco, vomito ed una new entry tra le mie patologie indiane: l’orticaria, un prurito diffuso in tutta la parte posteriore del mio corpo che tendo ad attribuire allo stretto contatto con la massa di viaggiatori freakkettoni che popolano il Sikkim.
Entriamo in una guest house, ci sediamo per un té. Dopo pochi secondi ci si avvicina il prototipo del backpacker che ha contribuito a rovinare la reputazione degli occidentali in India: francese, pantalone leggero, maglietta psichedelica, occhi sinizzati dalla marijuana, occhialini.
Si rivolge a me nello slang corrente dei viaggiatori zaino in spalla, dove una frase normale soggetto-verbo-complemente deve per forza essere infarcita di "man" e "cool" e "so cool" e "right on". Mi chiede l’accendino e ci invita a seguirlo sul tetto della guest house dove, assieme ad altri backpacker, è in corso una sessione di "pittura".
"Purtroppo abbiamo finito l’erba, ma siamo ancora pieni di booze".
A sua parziale discolpa, non poteva immaginare che fossi reduce da un viaggio di quattro ore su un autobus governativo, tutti tornanti su per la montagna, alle quale sono miracolosamente sopravvissuto nonostante un attacco di diarrea fulminante e i conati di vomito ricacciati in gola della signora bengalese seduta dietro di me.
Fornisco l’accendino. Decliniamo la gentile offerta.
Poche ore dopo mi sarebbero comparse le prime bolle rosse poco sopra l’osso sacro. E poco sotto.
La collezione antropologica si sarebbe poi arricchita di altri personaggi borderline, tra cui spicca senza dubbio un altro francese alla sua prima esperienza all’estero che, disinibito dall’alcol, ci ha confidato in un ristorante di Yuksom le sue interessanti teorie contro la religione, contro la società, contro la "cultura" (?!), contro la politica, contro l’economia, contro la Francia.
Di lì a pochi giorni avrebbe raggiunto l’amore della sua vita – conosciuto pochi giorni fa – in Nepal, dove insieme sarebbero andati a fare il Vipassana, una sessione di meditazione buddista molto in voga negli ultimi tempi che consiste nel chiudersi in un ashram e stare zitti per una settimana, due, tre, dipende. Detta meglio, copiando da Wikipedia, si tratta di:
"una delle due principali forme della meditazione buddhista, detta anche meditazione di visione penetrativa (in inglese insight meditation). […] la meditazione vipassana intende sviluppare la massima consapevolezza di tutti gli stimoli sensoriali e mentali, affinché se ne colga la reale natura e ci si incammini per tale via verso la liberazione. Il corpo e la mente sono il campo nel quale è possibile scoprire, con una visione attenta, la verità del mondo fenomenico e quella che porta alla sua estinzione."
E’ tutto gratis, bisogna solo lasciare un’offerta a fine meditazione.
Abbiamo goduto della frescura sikkimese ed appurato che i sikkimesi, nonostante si dicano diversissimi dal resto degli indiani e un po’ li schifino anche, come il resto degli indiani tendano egregiamente – ove possibile – ad una totale preservazione delle energie fisiche ottenuta grazie alla maestria di non fare assolutamente nulla tutto il giorno.
Esempio concreto, che non mi si venga a dare del leghista. Sempre a Yuksom cerchiamo un ristorante sikkimese, ovvero gestito da sikkimesi, visto che per pigrizia e per raccogliere i nostri dati antropologici sui viaggiatori Vipassana-friendly abbiamo sempre mangiato all’unico ristorante funzionante, da Gupta, gestito da indiani del Bihar.
Ci aggiriamo ad ora di pranzo per le vie semideserte del villaggio, vedendo molte insegne di ristoranti autoctoni. Ma ogni volta che entriamo, i gestori sospendono le loro attività quali guardare la tv, ascoltare musica disco di Bollywood e bere birra, per dirci che non hanno nulla di pronto, meglio se torniamo stasera. L’apoteosi l’ha raggiunta una ragazza bhutia – il ceppo etnico del bhutan – che alla domanda "possiamo mangiare dei noodles qui?", e la zuppa di noodles thukpa è il piatto tipico del Sikkim, ci guarda interdetta, indicando poi le bustine di plastica degli spaghetti istantanei Maggi.
"Se volete vi butto nell’acqua quelli".
Siamo tornati da Gupta.
Tutto questo per dire cosa? Che siamo tornati dal Sikkim, che a Santiniketan siamo ancora intorno ai 43 gradi diurni, che da ieri abbiamo finalmente la linea telefonica in casa – ci hanno messo solamente quattro mesi – e che forse forse il monsone è arrivato pure qui. Ieri notte ha piovuto e stamattina ha diluviato, il giardino era una piscina di fango.
Per celebrare la connessione veloce e l’arrivo del monsone, in fondo vi posto un bel video di una canzone a tema.
Potevo mettervi un bel raga, un bel pezzone di venti minuti di musica tradizionale indiana, per dare un ulteriore colore etnico al blog. O potevo mettervi una bel ballettino di Bollywood sotto la pioggia e fare una chiusura da "amico dell’India".
Ma anche se in effetti, lamentele a parte, sono molto "amico dell’India", e anche se da due mesi sudo ininterrottamente dalle sette di mattino alle undici di sera (probabilmente anche mentre dormo), vi metto una versione acustica di Mean Monsoon, di Dan Auerbach, chitarrista e voce dei Black Keys.
La canzone parla di tutt’altro, ma dice "monsoon", e tanto basta.