Gli Stati Uniti sono pronti a rispedire a casa gli insegnati cinesi che lavorano presso gli Istituti Confucio in America. Il motivo sarebbero delle irregolarità legate al loro visto. La Cina ovviamente non gradisce, e c’è anche chi sostiene che gli americani non siano più così sicuri della loro cultura. Tra Pechino e Washington le acque non accennano a calmarsi. Secondo quanto racconta il South China Monring Post, infatti, Washington avrebbe appena deciso di rimandare a casa un folto gruppo d’insegnati impiegati presso gli Istituti Confucio in America.
Gli Istituti Confucio – presenti anche in Italia – si sono affermati negli ultimi anni come istituzioni presso le quali studiare la lingua e la cultura della Cina. Nel mondo, dal 2004, sono cresciuti di numero fino ad essere presenti in 104 Paesi per un totale di 350 istituti.
Come in molti si sono affrettato a notare, essi rappresentano un pilastro del “soft power” cinese, cioè fanno parte di un’offensiva culturale tesa a rendere la Cina nota ed apprezzata nel mondo, diffondendo la conoscenza della sua lingua e delle sue tradizioni.
Negli Stati Uniti, però, sono sorti dei problemi. Proprio mentre Pechino lancia la sua campagna contro gli stranieri che risiedono o lavorano illegalmente in Cina, Washington ha sollevato il problema degli insegnanti cinesi in America, che lavorerebbero nelle scuole superiori utilizzando visti J-1, in teoria validi solo per gli scambi culturali.
Il South Chna Morning Post, riprendendo la direttiva resa nota dal governo americano, scrive che gli insegnanti “devono lasciare gli Stati Uniti entro la fine del mese prossimo e ‘non ci saranno estensioni’’.
Secondo quanto riportato dal South China Morning Post, “si teme che il conflitto bloccherà le attività di oltre 80 istituti e potrebbe ingigantirsi se non verrà gestito nel modo migliore”.
Il quotidiano di Hong Kong ricorda anche come gli Istituti Confucio siano legati all’insegnamento del cinese in molte università americane che si appoggiano ai fondi di Pechino per i loro corsi di lingua.
Il South China Morning Post riporta le esternazioni Hong Lei, portavoce del Ministero degli esteri cinese, secondo il quale le autorità cinesi “sperano che [il caso] possa essere risolto nel modo più consono e che non intacchi le normali attività dei programmi in questione”.
Secondo quanto scritto dal China Daily, un anonimo funzionario incaricato della gestione degli istituti avrebbe sottolineato come “tutte le risorse che vengono date agli Istituti Confucio, inclusi gli insegnati, sono stati forniti sulla base si richieste provenienti dagli Stati Uniti.”
Lo stesso funzionario avrebbe anche osservato come “tutti gli insegnanti si sono messi in viaggio con uno spirito di amicizia ma sono stati respinti con la sensazione di non essere i benvenuti” e si è chiesto se questo non finirà per colpire le relazioni fra i popoli cinese e americano.
Il Global Times – quotidiano cinese – va all’attacco e sostiene invece che “questo problema dimostra chiaramente come la sicurezza culturale degli Stati uniti non sia così grande come pensavamo.
Il supporto fornito dagli Istituti Confucio alla lingua e alla cultura cinesi infastidisce alcuni americani”. E conclude: “solo i Paesi culturalmente deboli dimostrano questo genere di sensibilità”.
Secondo quanto riporta il Wall Street Journal, anche un un noto professore dell’Università di Pechino, Kong Qingdong, sarebbe entrato nel dibattito con un post sul twitter cinese nel quale si legge: “citando i visti, gli Stati Uniti hanno fissato una data entro la quale gli insegnati degli Istituti Confucio devono lasciare il Paese.
Nel frattempo,in Cina, dovunque volgi lo sguardo non trovi che film di Hollywood, microchips provenienti dalla Silicon Valley e patatine del McDonald. Dall’intrattenimento alla tecnologia, l’invasione culturale americana è multipolare, onnidirezionale e profonda.”
Secondo quanto riportato dal South China Morning Post, un funzionario del Dipartimento di Stato americano avrebbe negato che la decisione sia diretta in modo specifico contro gli Istituti Confucio, sostenendo che sarebbe “semplicemente un problema di regolamenti.”
* Michele Penna è nato il 27 novembre 1987. Nel 2009 si laurea in Scienze della Comunicazione e delle Relazioni Istituzionali con una tesi sulle riforme economiche nella Cina degli anni ‘80-’90. L’anno seguente si trasferisce a Pechino dove studia lingua cinese e frequenta un master in relazioni internazionali presso l’Università di Pechino. Collabora con Il Caffè Geopolitico, per il quale scrive di politica asiatica.
[Scritto per Lettera 43; Foto Credits: confucius.washington.edu]