Le associazioni ambientali avvertono che l’apertura economica birmana rappresenta uno "stupro ambientale annunciato". L’ecosistema del Paese, uno dei più ricchi al mondo, è in serio pericolo a causa dell’assenza di leggi per la tutela ambientale. La Birmania rischia di diventare un paradiso perduto.
Nuvole colorate con striature blu, verdi, gialle, arancioni e rosse solcano i cieli sopra le sconfinate foreste pluviali birmane. Lo sgargiante piumaggio degli uccelli tropicali che vivono in quelle terre può produrre giochi di colore degni degli effetti speciali di un film di fantascienza o di un quadro surrealista.
La livrea che ammanta la specie autoctona della gurney’s pitta, ad esempio, sembra uscita direttamente dalla tavolozza usata da Joan Mirò per accendere quella che lui definiva “la scintilla magica” dell’arte. Uno spettacolo senza pari, confinato tra le invisibili pareti di una regione ancora quasi del tutto incontaminata.
Perché come spesso accade, la differenza tra un capolavoro e un disastro è questione di sfumature. O, come in questo caso, di chilometri. Basta muoversi un po’ verso est, infatti, varcando il confine con la Thailandia, e per trovare un singolo esemplare di gurney’s pitta è necessario entrare nell’area videosorvegliata di uno zoo, dove gli ultimi membri della specie sono guardati a vista, protetti notte e giorno dai loro numerosi predatori, rettiliformi e umani.
Arretratezza economica e oltre un ventennio di isolamento sul piano politico e diplomatico hanno contribuito a preservare fino ad oggi il patrimonio ambientale e paesaggistico della Birmania, che contrariamente ai suoi vicini dispone ancora di un ecosistema in buona salute, tra i più ricchi del continente asiatico e del mondo.
Posizionato nel punto di incontro tra la penisola malese, il subcontinente indiano e le pendici dell’Himalaya, il Paese è il quarto al mondo per estensione delle sue foreste tropicali (superato solo da Brasile, India e Congo). Osiptando 1.099 delle 1.324 specie di uccelli native della regione, si è guadagnato tra i naturalisti il soprannome di “Voliera dell’Asia”.
Senza contare le migliaia di specie vegetali che lo hanno scelto per piantare radici e le altrettante varietà di fauna terrestre che possono sopravvivere solo respirando l’ossigeno prodotto da questo polmone verde.
Questo paradiso terrestre, però, potrebbe avere le ore contate. Dopo essere uscita indenne dalla fase di “sviluppo selvaggio” che ha interessato nel decennio passato molti stati dell’area, la Birmania ha deciso adesso di aprire la sua economia agli investimenti stranieri.
E mentre gli uomini d’affari di ogni angolo del globo intasano i servizi di prenotazione degli aeroporti per salire su un volo diretto a Yangoon, capitale birmana del business, le associazioni ambientaliste locali e internazionali lanciano un preoccupato allarme sui devastanti effetti che l’atteso tsunami di investimenti avrà sul patrimonio naturale e paesaggistico del Paese.
Anche in questo caso il primo paragone che viene in mente è quello con la Thailandia, dove la crescita sfrenata del settore turistico ha portato con sé una distruzione ambientale che ha lasciato cicatrici indelebili su quello che un tempo era un “resort verde” a cinque stelle.
Un caso non certo isolato, se si considera che analoga sorte è toccata alla capitale cambogiana, l’antica Phnom Penh, sfigurata dal cemento armato, e in molte zone della costa vietnamita, malese e indonesiana.
Il turismo incontrollato, tuttavia, è solo uno dei rischi collegati al flusso di denaro straniero diretto verso il Paese. Come sottolineato in una recente intervista da Robert J. Tizard, che dirige l’ufficio newyorkese della Wildlife conservation society in Burma, società e aziende di mezzo mondo sono già in fila davanti ai confini birmani in attesa di ricevere il via libera per lo sfruttamento delle sue risorse naturali: dal caucciù alla canna da zucchero, dall’energia idroelettrica al petrolio, dai legnami pregiati (pyinkado, teck e alcune varietà di bambù) alle ricchezze del sottosuolo (oro, piombo, zinco, stagno, tungsteno e gas naturale).
Ad accrescere il pericolo di quello che le associazioni ecologiste birmane hanno definito uno "stupro ambientale annunciato" vi è l’ambiguo atteggiamento della giunta militare al potere nel Paese.
Se da un lato i generali si sono sempre mostrati enormemente orgogliosi e fieri dello spettacolo naturale offerto dalla loro terra e ne sono stati indirettamente i gelosi custodi grazie alla linea di isolamento tenuta nei decenni passati, oggi gli stessi graduati, molto spesso presenti nei consigli d’amministrazione delle grandi imprese e compagnie nazionali, appaiono chiaramente interessati alle prospettive di guadagno che le aperture avviate dal presidente Thein Sein hanno improvvisamente dischiuso.
Esemplare è in questo senso il caso della Yuzana Company: il suo proprietario, Htay Myint, gode di ottime entrature presso la giunta, che gli hanno consentito di ottenere alcune concessioni per lo sfruttamento di miniere e terreni nella zona del santuario naturale della Hukawng Valley, la stessa in cui il governo ha istituito nel 2001 quella che è stata presentata al resto del mondo come la più grande riserva di tigri mai realizzata.
Ebbene, secondo il Kachin development networking group, che dal 2007 si preoccupa di monitorare il santuario, tutte le concessioni della Yuzana Company, che vede prosperare i propri affari con le imprese straniere, si trovano dentro i confini della riserva.
E recentemente Jonathan Eames, di Birdlife international, ha denunciato che gli sforzi per istituire un’aera protetta per la gurney’s pitta nel delicato ecosistema delle Tenasserim Hills, al confine con la Thailandia, sono naufragati a causa di un progetto dell’esecutivo che punta a sostituire le foreste native con più redditizie piantagioni di olio di palma.
Ad attrarre le imprese straniere, comunque, non sono solo gli incentivi economici promessi dai generali, ma anche la sostanziale mancanza di leggi a tutela dell’ambiente, che rendono possibile dislocare con facilità in Birmania tutte quelle attività che a pochi chilometri di distanza sono considerate vietate perché eccessivamente inquinanti.
Basti considerare che il Ministero per l’Ambiente e le foreste è stato istituito solo l’anno scorso, e che ancora non si è dotato di un dipartimento per la conservazione della biodiversità. Inoltre, dove pure esistono dei limiti imposti da norme e regolamenti, la corruzione endemica nell’amministrazione statale consente di godere di ampie deroghe al costo di pochi spiccioli.
L’International rivers network, ad esempio, ha recentemente rivelato che nessuno dei 50 progetti di dighe per energia idroelettrica costruiti, in costruzione o in corso di approvazione nel Paese risponde a requisiti di impatto ambientale conformi agli standard internazionali.
"Niente è moderno, niente è del ventesimo secolo. Frotte di bambini si lavano e giocano nelle acque del fiume. L’aria è limpidissima. Non c’è traccia d’inquinamento. Un paradiso? La voglia di rispondere sì è grandissima e devo continuamente rammentarmi che, per mantenere questa apparente purezza, la Birmania ha pagato con altre forme d’inquinamento, per mantenere questa apparente pace i birmani hanno pagato e pagano un altissimo prezzo di violenza".
Così scriveva alla fine degli anni Novanta Tiziano Terzani in un suo articolo. Oggi la situazione potrebbe paradossalmente ribaltarsi: mentre la stretta repressiva del regime sembra, almeno in parte, allentarsi, l’inquinamento prima sconosciuto rischia infatti di distruggere quei paesaggi che avevano reso il grande scrittore "fiero di appartenere alla razza umana".
[Foto credit: flickriver.com]
* Paolo Tosatti è laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra.