Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
17 maggio 2010, 16:34
Finale a sorpresa (e con happy end)
In fin dei conti lavorativo e personale si sono mischiati di continuo in questo nostro rapporto, spesso asfissiante (per me), spesso problematico (per entrambi), spesso stressante (per lui, o almeno credo, per motivi diversi e opposti ai miei).
Così ho deciso che i suoi ultimi giorni romani meritassero qualcosa di più di una mano sventolata all’aeroporto di Fiumicino nel giorno della partenza.
L’ho invitato a cena, a casa mia, insieme a M. Ma, a sua insaputa, era scattato un piano alternativo. La festa a sorpresa. Il retropensiero sadicamente affettuoso era: finalmente una situazione che lui non può controllare… Con il timore, però, che la puntualità giapponese e la non puntualità italiana mandassero tutto all’aria. Invece ce l’abbiamo fatta.
Così lui è arrivato, persino con qualche minuto di ritardo (oggi mi ha spiegato che era arrivato puntuale, ma per non esserlo troppo, si era fumato una sigaretta prima di suonare; e la cosa strana è che io contavo in un pensiero del genere da parte sua); mi veniva da ridere e ho affidato la gestione della messinscena a M.
Quando il giapponese ha varcato la soglia di casa è stato sospinto a forza nella nostra stanza perché lasciasse lì la giacca… e lì ha trovato 15 persone ad aspettarlo. Non ho visto la sua faccia, ma pare che all’inizio fosse come accecato: non riusciva a riconoscere nessuno tanto era lo stupore. Poi si è ripreso e, invitato, si è persino lanciato in un discorso con il calice alzato. Al dunque mi stavo per commuovere.
La serata è sta lunga e piuttosto alcolica (del resto, avevo invitato i presenti a colmargli il bicchiere ogni qual volta fosse stato vuoto: invito superfluo, in verità, perché lui non ha mai avuto bisogno di sollecitazioni in questo senso).
A un certo punto mi ha preso un vago senso di fastidio, una nota di straniamento: continuavo a sentirmi controllata da lui, nonostante fossimo in un contesto tutt’altro che lavorativo. Perché, nelle poche battute che ci siamo scambiati, mi pareva che lui tornasse sempre allo stesso registro, sempre allo stesso schema, sempre e inevitabilmente a ricalcare il ruolo del “maestro” lui e della “discepola” io.
Cose che non capisco. Come il fatto che, subito dopo lo svelamento, percepivo che cercava la mia presenza, dove mi sedevo io, si sedeva anche lui – salvo che io dopo poco mi rialzavo per andare in cucina – ma anche per fuggire l’imbarazzo.
Però ero anche l’unica con cui si prendeva libertà quasi offensive, con risposte sbrigative o prese in giro sgarbate. Credo che i due atteggiamenti possano perfettamente conciliarsi, in realtà: come l’affetto rude dei fratelli maggiori. Non è però esattamente quel che chiamerei soddisfacente. Con rammarico e delusione, ho pensato che nulla era stato intaccato quando, accompagnandolo alla porta, l’ho salutato con un “See you on Monday”, che mi è venuto totalmente spontaneo e che in un secondo ha cancellato casa mia e i presenti intorno a noi.
Ho notato sì che lui ha indugiato più del solito nell’abbraccio, solo l’ho imputato all’elevato tasso alcolico.
Come nei romanzi giapponesi, si è creato un non detto che è diventato indicibile. C’è affetto e convive, come la polvere con gli armadi, con il silenzio. Forse si nutre di silenzi.
Pensavo a quello che racconta A. Pastore nel suo libro, un piccolo sintomatico episodio: dopo una notte di bagordi con un gruppo di giapponesi, lei si aspetta nuovi legami, nuove complicità e invece niente, quelli alle 8.00 del mattino sono operosi e imperscrutabili e un po’ freddini, diciamolo, esattamente come sempre.
Invece. In parte mi sbagliavo.
Stamattina ero in ufficio già da un pezzo al suo arrivo. Quando è entrato era particolarmente sorridente (e non dimentichiamoci: è lunedì per tutti). Non si è nemmeno tolto la giacca, si è accostato alla mia scrivania e mi ha detto in inglese: “Mi spiace, ieri ero ancora a pezzi e non ce l’ho fatta, ma volevo di nuovo ringraziarti: è stato il giorno più bello di questi 4 anni passati in Italia”. Mi sono alzata e ci siamo abbracciati non a lungo per un italiano, ma all’infinito per un giapponese. In quel momento, non so, ho percepito il suo attaccamento e il suo imbarazzo e una qualche forma di richiesta di affetto e mi è sembrato di abbracciare il fratello più piccolo che non ho.
P.s. per non smentire del tutto la sua boria, comunque, subito dopo la sorpresa, lui cerca di riappropriarsi del suo ruolo. Di mostrare il suo acume e il suo spirito d’osservazione (giornalistica, ovviamente). Mi dice: "Avevo capito subito che c’era qualcosa di strano… M. aveva la cravatta e dovevamo essere solo noi tre..".
"Beh", dico io, "quello vuol dire poco: lui la porta pure in casa", lui scuote la testa e sottintende: non mi avete fregato del tutto. Ma, a sentire chi ha visto la sua faccia appena varcata la soglia della stanza, non aveva nulla di chi sospettava.
17 maggio 2010, 16:35
Sempre meglio del prete…
Da Repubblica.it:
‘I-Fairy’, progettato e costruito dalla Kokoro, specializzata in automi dall’aspetto umanoide, era collegato a un computer in cui un operatore inseriva i comandi appropriati per la gestione della cerimonia, che si è svolta in un ristorante di Tokyo:
qui il video
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)