(In collaborazione con AgiCHINA 24) L’indagine del sinologo israeliano Meir Shahar (Il Monastero di Shaolin. Storia, religione e arti marziali cinesi, Astrolabio Ubaldini ed.) sui 1500 anni di storia del monastero di Shaolin e sul suo ruolo nelle vicende militari, politiche e religiose della Cina.Attraverso letteratura popolare, trattati tecnici, epigrafi, steli e documenti ufficiali, Shahar opera il tentativo di restituire una dimensione storiografica all’enigmatico fenomeno rappresentato dal monastero di Shaolin e dai suoi accoliti.
Come si concilia la religiosità buddhista, con il suo divieto di praticare la violenza, con le pratiche marziali affinate nel tempo dagli ormai leggendari monaci guerrieri? Come spiegare la presenza di compassionevoli bodhisattva accanto alle divinità irate dai caratteri guerreschi nell’ambito della devozione religiosa del tempio?
Spiritualità e guerra, fedeltà al governo e mercenariato; vegetariani osservanti e monaci carnivori e bevitori impenitenti; e ancora, decine di trattati di tecniche marziali di altrettanti maestri, ognuno rivendicante per sé la reale discendenza dalla genuina tradizione Shaolin; monasteri come luoghi mistici e roccaforti strategiche; sistema marziale e insieme di pratiche volte al benessere psicofisico.
Shaolin è tutto questo e molto altro e tentare di trovare dei punti fermi, delle questioni “oggettive”, in grado di ridimensionare la mitologia di cui è imbevuta la storia di Shaolin è forse impossibile.
Perché Shaolin è soprattutto racconto ed anzi, a ben pensarci, la storia di Shaolin s’inizia proprio con un racconto, quello del patriarca Bodhidharma e del primo allievo Huike, cui verrà trasmesso il Dharma dopo avere atteso tre giorni in piedi nella neve ed essersi amputato il braccio come prova della propria volontà.
Quando si parla delle arti marziali cinesi in genere, non si può lasciare da parte il racconto e ciò che esso rappresenta per il praticante.
Perché è l’immaginario, assieme alla presunzione di fondamento storico della propria tradizione, a nutrire la mente e il corpo del praticante dell’arte del gong fu; è l’accettazione di quell’elemento visionario e poetico accanto alla verità storica, che rappresenta il motore propulsivo e insieme il senso del gesto ripetuto mille volte, dell’insegnamento accolto e ritrasmesso di generazione in generazione, sempre uguale a se stesso.
Senza il racconto di Shaolin non esisterebbe nemmeno la storia di Shaolin.
Allora ecco che i guerrieri dei romanzi di epoca Ming convivono e si confondono con i combattenti rivoluzionari dei Turbanti Rossi; ecco che le centinaia di steli che affollano il tempio, memento dei servizi resi dai monaci al governo e garanzia di stabilità nei reciproci impegni, sembrano trarre la propria origine da quel solco profondo che il Patriarca Bodhidharma, a seguito di nove anni di ininterrotta meditazione, incise con la propria ombra sulla pietra.
Se, per quanto riguarda Shaolin, è sensato e doveroso ricercare le linee di confine tra storia e leggenda, forse è privo di senso tentare di estrarre da una documentazione puramente storiografica la sua essenza profonda.
Perché pur nella sua dimensione storica, esso si presenta innegabilmente come un fenomeno complesso, che si articola su troppi livelli e dimensioni, compresenti eppure contraddittori.
A Shaolin troviamo tutto: tradizione marziale e religiosità, storia e mito, politica e cultura, attenzione per il corpo e il benessere e tensione verso il superamento del limite fisico e mentale umano.
Esso ha saputo mutare al passo della Cina stessa. Si potrebbe anzi affermare che proprio questa inafferrabilità, quest’assenza di un’identità definita, questo “trasformismo” nei valori etici costituiscono la vera essenza di Shaolin, e insieme la sua maggiore garanzia di sopravvivenza nel corso della storia.
Perché si può abbattere un edificio, ma non un mito. Non un racconto. Perché forse Shaolin non è affatto un sistema marziale definito, nemmeno un luogo fisico vero e proprio: è un immaginario, anzi un insieme di immaginari uniti da un filo sottile nel corso dei secoli.
Ed è il racconto di una cultura, che è stato difficile cancellare perché ha saputo parlare a tanti livelli.
Così, nonostante tutto, si può ben sperare che Shaolin saprà resistere a ogni tentativo di de mitologizzazione, e anche la ricerca di Shahar sugli elementi di storicità del fenomeno Shaolin ci restituisce, in fin dei conti, una visione ancor più ricca e complessa, dunque proprio per questo ancora più ambigua, sfumata, immaginificamente potente.
Shaolin vuole, e deve, rimanere tra storia e leggenda, là dove si incontrano monaci e feroci guerrieri, banditi e vagabondi ubriaconi, maestri solitari ed eroi rivoluzionari. Nello spazio al confine tra realtà e mito, in quel “reame itinerante dei fiumi e dei laghi”.
Il volume di Meir Shahar Il Monastero di Shaolin è presentato venerdì 20 aprile alle 20,30 presso la Libreria Aseq in via dei Sediari 10 a Roma dagli studiosi di arti marziali cinesi Roberto Sforza e Luca Spogli.
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