Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
21 aprile 2010, 00:54
Come imparare le lingue (o anche, come trarre qualcosa di utile da un viaggio in treno) e come memorizzare le informazioni (ovvero_ del contesto)
Siamo sul lentissimo regionale che deve portarci prima a Campiglia, poi a Piombino. Destinazione: isola d’Elba.
Sui finestrini sono attaccate le classiche targhette metalliche dirette ai viaggiatori, con inviti più o meno perentori. Il linguista che è in lui impazzisce alla vista di simili cose. Ora, lo so che più o meno lo facciamo tutti il giochetto di confrontare le lingue e quindi in fondo non c’è niente di male, ma io non ho possibilità di fuga da questi discorsi, anche se non ho voglia, anche se me ne starei in silenzio o a pensare ai fatti miei, e di solito queste sessioni intensive di linguistica del quotidiano durano un tempo che mi pare insopportabilmente lungo. Comincia a leggere:
"Non gettare oggetti dal finestrino"
"Ne jetez pas aucun object par la fenetre"
"Do not throw anything from the window"
e poi il tedesco, ma non lo ricordo.
Quindi inizia a discettare sulla posizione del verbo nelle diverse lingue, sulla posizione delle parole, sulla costruzione negativa. Passa un quarto d’ora a illustrarmi la differenza fra par, from e da, spiegando che attraverso par riesce a capire il senso di da, perché, dice lui, il da italiano è una delle cose più difficili da capire. Va bene, va bene tutto, ma, come spesso accade, mi manca l’aria, e non perché quella del trenino sia piuttosto consumata.
A chiosa di tutta la riflessione a voce alta, mi dice: "This is how you learn languages".
Questo è niente se paragonato al vicolo cieco in cui mi immetto sciaguratamente da sola la sera stessa, quando siamo a cena insieme. Non so più di cosa stiamo parlando, ma, così, nel discorso, in modo onesto, benché prefigurando possibili ricadute nefaste, gli dico che io ho problemi a ricordarmi i dettagli. Che, di un film, di un libro, di una vicenda vera o finta che sia, ricordo l’atmosfera, ma mi perdo molti dei dati. Annuso subito, mentre uso le parole "details" o "facts" il rischio di inciampare in una predicozza giornalistica, ma ormai alea iacta est.
Uno potrebbe pensare che lui si lanci in un’appassionata difesa del valore del dettaglio, del micro, dei frammenti che uno considera di poco conto e invece danno il senso generale. Magari. Invece, molto seriamente e con fare paterno, mi espone la sua teoria. Cioè che mi manca la capacità di ricordare bene perché non contestualizzo a sufficienza. E che lo imparerò col tempo e l’esperienza giornalistica.
Lo guardo perplessa, non vedo il nesso, cerco di spiegarmi meglio. Gli domando se, per esempio, lui ha mai dovuto scrivere articoli strettamente scientifici e come se l’è cavata. Anche capendo il senso generale, molti termini uno se li perde per strada. Tanto per dire. Lui svicola, mi risponde che non importa, "che ciò che conta per un giornalista è fare la domanda giusta". Spero sia un modo per dirmi che è normale se scordo nomi e particolari che afferiscono a campi del sapere specifici. Invece da lì prende il largo per un discorso più generale, il cui senso è: se tu colleghi le varie questioni, non le scorderai. Sono persino d’accordo, vorrei però dirgli che non c’entra niente con quello che dicevo e che in ogni caso io tendo a dimenticare, dopo un po’, date e nomi.
Non significa, però, che non mi sento in grado di "connettere" le cose fra loro (mi pare una funzione basilare del cervello, di cui tutti sono dotati). Per come la vedo significa che mi interessa il discorso in generale e tendo a saltare dei pezzi nel tentativo di farmi un’idea. Uso i dettagli per farmela, poi me li scordo. E me ne rammarico.
In ogni caso ho la sensazione che io lui stiamo facendo due discorsi inconciliabili.
Sicuramente il mio repertorio lessicale in inglese è limitato, ma mi chiedo come è possibile lui abbia una considerazione così infima della mia intelligenza. Se ne esce con esempi che mi sembrano strampalati o quantomeno non pertinenti: mi elenca una serie di collegamenti tra Italia, Giappone e Usa che sono, dice, i "suoi" contesti e non capisco che c’entra con la mia semplice affermazione "Ho poca memoria". Dice che il suo contesto inizia a partire dalla sua data di nascita e mi suggerisce di imparare a fare lo stesso, così arriva a domandarmi: "Cosa è successo nel 1979 in Italia?". Gli rispondo (con un mezzo sorriso, perché so già che non è la risposta che lui vorrebbe): "So per certo che Calvino ha scritto Se una notte un viaggiatore, ma altri fatti storici di quell’anno esatto non li ricordo, nel ’78 è stato ucciso Moro e il terrorismo in quel momento…".
Non mi fa nemmeno finire (e dire che, nella mia idea, io stavo articolando un contesto): "No, no, deve essere l’anno esatto, non quello prima né quello dopo". Taccio, che altro posso fare? Torniamo al punto di inizio: io non mi ricordo le date! Che c’entra con il contesto? O meglio: quanto e come c’entra con il contesto?
Sostiene altre cose che non hanno senso. Che i filosofi hanno come funzione principale quella di contestualizzare. Ah sì?
"Put things into context", mi ripete come un mantra, è quello che devo fare.
Poi prende altre strade ancora e parla con trasporto delle grandi menti del passato. Quelle che, secondo lui, erano grandi proprio perché "mettevano le cose nel contesto". Di Machiavelli dice che ha letto andava spesso in taverna e se lo immagina mentre, tra una caraffa di rosso e l’altra, discute con gli avventori mezzo avvinazzati. Con enfasi dice: "Possibile che, senza tutti i nostri libri, senza internet, senza le nostre conoscenze, lui, che era solo un funzionario, lui che frequentava le bettole, possibile che uno così abbia scritto testi ancora oggi fondamentali?". E il contesto qui non ce lo mettiamo? "Solo" un funzionario?
Continua: i Romani con le loro costruzioni, Leonardo Da Vinci con la sua genialità, e poi – questo mi lascia davvero basita – si spertica in lodi per un pittore che abbiamo visto a Palazzo Pitti e che, dice lui, non aveva nessuno degli strumenti di cui disponiamo oggi ma che era talmente innovatore da comunicare anche a noi a secoli di distanza… prima non capisco il nome, cioè lo capisco ma non ci credo, poi lo ripete due-tre volte e lo intendo chiaramente: Boccaccio!
E ancora mi viene a parlare di contesti…
Nel frattempo io ho rinunciato a ribattere da un pezzo e rispondo con un assenso sconsolato del capo al suo: "Devi davvero informarti su cosa è accaduto esattamente in Italia nel 1979, devi partire da lì per creare il tuo contesto".
Ora come ora, più che un contesto, vorrei crearmi un mondo virtuale.
21 aprile 2010, 00:57
Sulle tracce di Napoleone – parte II
Stavamo per prendere l’elicottero, ma l’aeroporto era chiuso.
Stavamo per affittare una barca per fare una foto alla casa di Napoleone dal mare, ma poi non si vedeva nemmeno così.
Oggi è stata una giornata di immensa delusione per lui: abbiamo girato tutti i luoghi napoleonici alla ricerca della foto perfetta e non l’abbiamo trovata. Per sopperire alla mancanza, si mette a fare tutte le foto possibili e immaginabili che abbiano qualche nesso con Napoleone: "Se non possiamo mettere una foto grande, metteremo più foto piccole".
Certo, sensato. Finché lo vedo attaccato alla vetrina di un negozio di souvenir; mi mostra soddisfatto il risultato: un campionario di mini-busti di Napoleone con il caratteristico cappello calzato. Boh!
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)