Il divo di Bollywood, che due anni fa aveva girato un film sui pregiudizi subìti dagli indiani negli Usa post 11 settembre, è stato fermato alla dogana di New York per accertamenti circa il suo cognome musulmano. L’incidente, e non è la prima volta, ha creato una mini crisi diplomatica tra Delhi e Washington.
“Would you please take your passport and follow this officer, mister Khan?”
Queste probabilmente le parole con cui il malcapitato funzionario dell’immigrazione dell’aeroporto privato di White Plains, poche decine di chilometri da Manhattan, ha innescato una catena di eventi sfociata la scorsa settimana in una mini crisi diplomatica sull’asse Delhi-Washington.
Il Khan in questione risponde al nome Shahrukh, e se per la Homeland Security è semplicemente un cittadino indiano con un cognome “sensibile”, in India SRK è l’incarnazione del divo di Bollywood, l’Attore con la a maiuscola considerato dalla stragrande maggioranza degli indiani alla stregua di un semi-dio (come se ne mancassero, in India, di dei).
Khan giovedì scorso aveva raggiunto gli Stati Uniti con un jet privato, accompagnato da Nita Ambani, moglie del presidente multimiliardario di Reliance, Mukesh Ambani.
I due, assieme al loro staff, erano attesi alla Yale University, dove Khan doveva pronunciare un discorso di un’ora e ricevere la Chubb Fellowship della prestigiosa università del Connecticut.
Ma mentre tutto il resto del gruppo ha passato indenne la soglia della dogana, Shahrukh Khan è stato trattenuto per oltre un’ora e mezza, inconveniente che non solo ha innervosito la superstar – il personale di Yale racconta di averci messo un bel po’ per far tornare SRK di buon umore – ma ha messo in moto i più alti canali diplomatici indiani per garantire una celere risoluzione delle pratiche di immigrazione del divo 46enne originario di Delhi.
Dopo un giro di telefonate tra il ministro degli esteri SM Krishna e l’ambasciatore indiano negli Stati Uniti Nirupama Rao, il Consolato generale indiano di New York, recita il comunicato stampa del giorno seguente, “è intervenuto con le autorità preposte per velocizzare l’autorizzazione all’entrata di Shahrukh Khan, che è stata rilasciata dopo 75 minuti dal suo arrivo in aeroporto”.
Arrivato a Yale con tre ore di ritardo, dopo aver sbollito l’arrabbiatura chiudendosi in un temporaneo silenzio stampa, SRK dal palco ha scherzato sulla sua disavventura.
“Ogni volta che sento di essere diventato troppo arrogante, mi faccio sempre un viaggetto in America” ha detto Khan davanti agli studenti. “Mi chiedono sempre quanto sono alto e io mento sempre dicendo di essere cinque piedi e due pollici (poco più di 150cm, SRK in effetti è molto basso, nda). La prossima volta sarò più spavaldo: se mi chiederanno di che colore sono, proverò a dire bianco”.
Washington ha immediatamente inviato un messaggio di scuse a Delhi, cercando di chiudere la questione, ma le “scuse meccaniche” sono state giudicate dal Ministero degli Esteri indiano “insufficienti”, arrivando perfino a convocare ufficialmente l’ambasciatore americano a Delhi Donald Lu, chiedendo chiarimenti rispetto al trattamento riservato al VIP indiano.
Molti hanno colto l’occasione per esprimere la frustrazione per i controlli infiniti all’estero a causa di cognomi "da terrorista" segnalati nei computer della sicurezza USA, un impaccio che in passato ha disturbato altri indiani eccellenti: l’ex presidente Abdul Kalam, costretto a levarsi le scarpe al JFK di New York; l’ambasciatrice Meera Shankar, palpeggiata dai poliziotti dell’immigration; Hardeep Puri, inviato indiano all’Onu, obbligato a togliersi il turbante per facilitare i controlli.
Lo stesso Shahrukh Khan nel 2009 era incappato nel bip-bip dei computer dell’aeroporto di Newark, uscendo solo dopo un’ora di interrogatorio (Khan sostiene siano state due). All’epoca, ironia della sorte o provvidenziale coincidenza, Khan era in tour per promuovere il campione d’incassi My Name is Khan, pellicola bollywoodiana che narra dei pregiudizi subiti da un indiano residente negli Stati Uniti post 11 settembre, interpretato da Khan.
Il film è stato presentato anche al Festival del cinema di Roma 2010 e distribuito nelle sale col titolo Il mio nome è Khan.
A scanso di equivoci, simile trattamento è stato riservato più volte ad altri celebri Khan dell’industria cinematografica di Mumbai, dove di attori dal cognome di origini mongole se ne trovano a volontà: Aamir, Irrfan, Salman…tutti indiani, tutti musulmani.
Subissata dalle lamentele dopo che anche il senatore Ted Kennedy ed Al Gore sono incorsi in complicazioni alla dogana, alcuni anni fa la Transport Security Administration americana ha messo a punto un sistema per evitare inconvenienti a passeggeri già fermati ai controlli in passato.
Si chiama Traveler Redress Identity Program, meglio noto come TRIP, e risolte le pratiche di immigrazione una prima volta si può chiedere di essere inseriti nel database. La procedura non è esattamente immediata (ci vogliono almeno 40 giorni), ma alla fine si riceve un codice da presentare alla dogana: mi avete già controllato, non sono un terrorista.
Shahrukh Khan, come ha puntualizzato nel weekend il portavoce dell’ambasciata americana a Delhi, non si era registrato al programma TRIP.
Con un certo imbarazzo la stampa nazionale ha bollato la severa reazione indiana come “esagerata”, anche perché la diplomazia indo-americana in questo momento dovrebbe occuparsi di ben altri problemi: Siria, rapporti commerciali tra India ed Iran, investimenti americani nella rivendita al dettaglio indiana.
Ringhiare per 75 minuti di ritardo sulla tabella di marcia di King Khan non è apparso opportuno ad una grossa fetta dei media e a parte dell’establishment politico indiano. Il chief minister del Jammu Kashmir Omar Abdullah, musulmano, ha commentato su Twitter: “Onestamente, qual è il dramma? Interrogatori all’aeroporto capitano di continuo a chiunque. Fatevene una ragione.”
Sui social network qualcuno ha addirittura proposto di dare a Shahrukh Khan un passaporto diplomatico, evitando così ogni sorta di controllo internazionale. La soluzione, anche se apparentemente curiosa dal punto di vista legale, potrebbe non essere impossibile da applicare.
Nel 2009, appena nominato ministro degli Esteri, SM Krishna ebbe la premura di fornire a Ratan Tata, capo del colosso multinazionale indiano Tata – automobili, tv, telefonia, supermercati… – un passaporto diplomatico.
A che titolo, non è dato sapere.