Una protesta a Guangzhou mette in evidenza l’esistenza di patrimoni segreti da parte dei leader cinesi. Una verità che tutti sanno: i settori economici sono divisi tra le famiglie dei potenti.
Lo sanno tutti, ma non si dice: Wen Jiabao, il premier, pare addirittura che abbia espresso «disgusto» per la moglie e per il figlio che si spendono il suo nome per affari economici. Business mica da poco: la moglie di Wen è la regina dei diamanti, ne controlla l’intero mercato, il figlio sta facendosi strada nel mondo in espansione delle telecomunicazioni. Il figlio di Hu Jintao anche, dopo essere finito in mezzo ad uno scandalo africano, in Namibia. La famiglia di Li Peng, il «macellaio» di Tian’anmen, controlla tutto il settore energetico. La famiglia di Jia Qinglin, numero quattro del Politburo – il cui figlio illegittimo pare si sia schiantato a bordo di una Ferrari qualche settimana fa a Pechino, con immediata censura del termine Ferrari su internet – tiene in mano tutto il real estate, il mercato immobiliare altro business miliardario.
La famiglia di Chen Yun, uno degli otto immortali, anch’egli falco nell’89 controlla tutto il settore bancario, mentre il petrolio sarebbe affare di Zhou Yongkang, attuale numero nove del Poltiburo e protagonista degli ultimi tempi: secondo i rumors sviluppatisi in Cina, sarebbe lui lo stretto alleato di Bo Xilai nel tanto chiacchierato tentativo di golpe, mai confermato. Una catena che lega i destini delle famiglie al comando: una casta in cui il potere economico e quello politico coincidono, tanto che secondo un cable del luglio 2009 rilasciato da Wikileaks, i destini economici della nazione sarebbero decisi proprio dai diritti acquisti in termini monetari, da parte dei leader politici e le loro famiglie.
La Cina sarebbe quindi in mano a gruppi diversi, a capo di imperi economici nei settori chiave, spesso in competizione e in scontro aperto tra loro. Una situazione talmente palese, che grazie allo sviluppo di internet e la corsa del paese verso il progresso economico, ha finito per arrivare all’orecchio del popolo.
La scorsa settimana a Canton c’è stata una protesta particolare: alcune persone sono scese per strada con cartelli, nei quali chiedevano che i politici cinesi svelassero i propri patrimoni economici. Sei persone sono state arrestate, la comunicazione ufficiale è giunta solo ieri: la protesta ha però rappresentato l’acme di alcune sensazioni che cominciano a serpeggiare nella complessa e frastagliata società civile cinese. Tra le scritte proposte dai pochi scesi in strada c’erano: «nessun voto, nessun futuro» e «uguaglianza, giustizia, libertà, diritti umani, Stato di diritto, democrazia».
L’attuale meccanismo di comunicazione esistente in Cina circa le attività dei funzionari, consente di mantenere il più stretto riserbo sui propri patrimoni economici personali, nonché sulla propria famiglia: «anche se il premier Wen Jiabao ha chiesto esplicitamente lo scorso anno che venisse portata avanti la possibilità di conoscere le dichiarazioni patrimoniali, l’invito non è finito in nessun calendario di azioni del governo», secondo quanto dichiarato da Wu Yuliang, vice segretario di un organismo anti corruzione del Partito Comunista. Le proteste si basano sul potere economico dei leader cinesi e delle loro famiglie e sullo sfoggio di ricchezza fatto da alcuni dei politici locali in occasione della recente Assemblea Nazionale.
E’ il caso di Li Xiaolin, classe 1961, figlia di quel Li Peng che ebbe un ruolo primario nel decidere la repressione degli studenti a Tian’anmen nel 1989. Oggi è a capo della China Power International Development e di fatto controlla tutto il mercato energetico cinese. All’Assemblea Nazionale era stata fotografata con un costoso vestito, attirando su di sé molte critiche da parte del pubblico locale.
Nelle settimane scorse circa 180 utenti di Internet hanno firmato una petizione invitando il governo a rendere pubblici i patrimoni dei leader.
La risposta delle autorità è stato un invito a bere una tazza di tè – un eufemismo per indicare una convocazione in un posto di polizia per un interrogatorio – secondo quanto affermato da uno dei firmatari, Guo Yongfeng, un blogger di Shenzhen.
[Scritto per Il Fatto Quotidiano]