Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
16 aprile 2010, 11:39
Mai perdere il treno
Sul treno di ritorno da Firenze. Appoggiati al ripiano davanti al sedile ci sono alcuni dépliant distribuiti dalle Ferrovie.
Lui legge: “Come comportarsi in caso di esodo”, io aggrotto le sopracciglia e mi chiedo di quale esodo esattamente si parli. Quello dei vacanzieri, come dicono puntualmente ad agosto i tg? Ma lì si parla di autostrade. Quello a cui dovremo prepararci in massa quando l’Italia sarà all’incirca come la Grecia?
Ne prendo uno, di dépliant, per capire di che si parla.
C’è scritto:
“Come comportarsi in caso di emergenza a bordo del treno” e “Come comportarsi in caso di esodo dalle gallerie della linea ferroviaria ad alta velocità Firenze-Bologna”.
Spiego a lui che sono solo istruzioni legate alle situazioni di rischio e all’uscita dalle gallerie. Mi risponde: “Secondo me lo hanno fatto dopo ciò che è accaduto in Trentino Alto-Adige”. Io non sono così certa della prontezza di reazione di Fs e aggiungo: “Quel treno, peraltro, non era nemmmeno delle Ferrovie dello Stato”. Sembro averlo convinto.
Poi, però, pontifica: “Se io fossi un giornalista italiano, me ne prenderei uno, comunque”. Taccio e lui continua: “Può tornare utile, così se ci fosse un incidente in quella tratta potrei sapere esattamente come sono organizzate le Ferrovie per affrontare l’emergenza. A casa ho tutta una collezione dei libretti di descrizione tecnica degli aerei, quelli che trovi nel sedile, dove ti spiegano le caratteristiche del velivolo, il numero passeggeri, ecc. Quando un aereo si schianta, tu puoi controllare subito tutto e sapere per esempio la capienza di un certo modello”.
Agrrotto ancora di più le sopracciglia, ma è solo un moto dell’anima, non posso mostrarlo.
Forse sono pratiche romantiche da giornalismo prima di Internet. Ad ogni modo, visto che sono una giornalista italiana e soprattutto per non deluderlo, prendo un dépliant e con cura lo infilo in borsa.
16 aprile 2010, 12:15
Per sgomberare il ca(m)po da equivoci
Nel soggiorno fiorentino, ho modo di confrontarmi con l’altra collaboratrice del giornale. Entrambe concordiamo sugli evidenti sintomi di solitudine cronica del mio capo, sulle sue piccole manie, sui suoi repentini terremoti umorali per i quali si trasforma da essere sentimentale che guarda le soap-operas coreane al mostro (che si atteggia a) cinico del corrispondente che sa come va il mondo e non ha pietà di chi commette errori.
Lei mi racconta che in passato ha già avuto un capo così: ma italiano. Che invitava i suoi sottoposti dell’ufficio a cena il sabato o a pranzo la domenica, accampando scuse lavorative, mentre sotto sotto sperava in un pasto comunitario.
Tutto ciò per dire che, giapponese o meno, un capo solo è sempre complicato. Specie se, dopo tutto, è un povero diavolo.
P.s. A un certo punto parlavo delle vacanze che lui doveva prendersi prima di lasciare l’Italia: guarda caso ormai l’argomento è superato, accantonato, dimenticato. Tra solitudine e senso del dovere, non sta mica messo bene…
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)