Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
13 aprile 2010, 01:08
Compleanno in trasferta
Stamattina arrivo in ufficio un po’ in ritardo. Consapevolmente, colpevolmente. Devo passare tre giorni a Firenze e mi sento legittimata. Appena varco la soglia dell’ingresso, capisco che il suo umore è più cupo del mio. Non alza lo sguardo dal computer, non accenna neanche un vaghissimo sorriso, mi dice solo: “C’è stato un incidente in Trentino, ho bisogno del tuo aiuto: facts, facts, facts”.
Ok, dico io, e so già che finché non avrà finito il pezzo, sarà insopportabile. A quanto pare io non sono meglio, tuttavia. La mia collega-amica, infatti, più tardi, mi confessa che credeva fossi arrabbiata con lei e non ne vedeva il motivo.
Semplicemente, sono insopportabile anche io.
Nel pomeriggio siamo a Firenze. Vorrei continuare a scrivere un articolo che ho iniziato in treno, ma per lui è forse l’ultima occasione di vedere Firenze e non vuole sprecarla. Così giriamo un po’, fa foto ovunque, in Piazza della Signoria così come alla T dei Tabacchi, chissà se a Firenze ha un qualche charme in più.
Mi diverto a prenderlo in giro a sua insaputa. Per esempio mentre aspettiamo che ci raggiunga un’altra collaboratrice del giornale, siamo appoggiati al muretto del Lungarno e c’è un sole caldo e piacevole: mi accorgo che c’è una statua di Garibaldi, gliela indico e lui prontamente e pavlovianamente reagisce allo stimolo: brandendo la macchinetta fotografica si avvia a immortalare l’eroe risorgimentale.
I nostri commenti sono piuttosto distonici; “I knew”, dico io, alludendo al suo scatto felino da fotografo del Risorgimento; lui invece, riferendosi a Garibaldi: “Exactly what Italy needs today!”.
A fine giornata, a fine passeggiata, siamo a cena, con una collaboratrice e il vero fotografo del giornale con famiglia al seguito, comprendente un bambino di 4 anni. Lui, non capisco perché, continua a ripetere: “Dobbiamo festeggiare” e continua a versare vino nei bicchieri.
Lo guardo interagire con il bambino e non posso non intenerirmi. Così, quando usciamo a fumare, gli dico: “I want to see you with your kid”, toccando un tasto dolente, quello dei figli. Dopo qualche minuto mi spiega che l’occasione speciale era il suo compleanno: mi sento in colpa, io pensavo fosse tra due giorni! Lui non vuole dirlo agli altri, ma lo faccio io: fa l’imbarazzato quando gli portano una fetta di torta con una candelina, eppure so che va bene così.
E pazienza se lui non ha saputo farlo con i miei di compleanni: in fondo l’italiana sono io. A qualcosa dovrà pur servire!
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)