L’anno scorso, soltanto nel settore tessile, oltre 200mila lavoratori hanno incrociato le braccia. La conflittualità è in aumento. Dieci anni fa la svolta: da paese agricolo a economia manifatturiera d’esportazione. China Files intervista Nicola Mocci, vicepresidente di Asia Maior.
Ha un colpevole la sparatoria durante la quale rimasero feriti tre lavoratori tessili in sciopero nella Cambogia sudorientale. La polizia ha arrestato Chhouk Bandit, governatore della provincia di Svae Rieng, teatro lo scorso 20 febbraio dell’aggressione contro un migliaio di operai che protestavano per chiedere salari più alti e migliori condizioni di lavoro, fuori dai cancelli di una fabbrica di abbigliamento sportivo che fornisce tra le altre l’azienda tedesca Puma.
Una uomo che indossava la divisa delle guardie di sicurezza aveva aperto il fuoco sulla folla. Secondo il ministro dell’Interno, Sar Kheng, il governatore, fermato al confine con il Vietnam, è “il principale responsabile” per l’attacco. Il ministro ha inoltre chiesto una commissione per prevenire l’uso di armi nella repressione delle proteste, giudicando tuttavia accettabile l’uso di manganelli e taser.
Le manifestazioni sono in aumento. L’anno scorso, soltanto nel settore tessile, oltre 200mila lavoratori hanno incrociato le braccia costringendo il governo a fare pressioni sugli imprenditori per garantire la sicurezza negli impianti e condizioni in linea con le leggi sul lavoro.
“Rispetto ai paesi vicini e in considerazione delle quote cospicue di aiuti finanziari che i Paesi donatori versano nelle casse ogni anno, la particolarità della Cambogia è rappresentata da un sistema di relazioni industriali apparentemente efficace che, in teoria, dovrebbe garantire i lavoratori. Nella realtà, nonostante le continue verifiche di ILO, organizzazioni non governative e di istituti internazionali, è apparso evidente che soprattutto in questi ultimi anni, il conflitto sociale è in crescita”, ha spiegato a China Files Nicola Mocci, vicepresidente dell’osservatorio Asia Maior.
“Nonostante i numeri dimostrino un’alta sindacalizzazione nella realtà non c’è una vera e propria tutela dei diritti dei lavoratori. Per quanto il numero degli scioperi sia aumentato negli ultimi anni, sono legati soprattutto alla richiesta di migliori condizioni di lavoro o di salario e i risultati ottenuti sono limitati”.
A dicembre del 2010 le industrie manifatturiere erano 262 di cui il 93 per cento in mano a stranieri soprattutto taiwanesi (25 per cento), cittadini di Hong Kong (20 per cento), cinesi e coreani. Quasi l’80 per cento ha più di 500 impiegati per un totale di circa 320mila addetti, per il 90 per cento donne.
Numeri che potrebbero anche raddoppiare considerato l’alta incidenza del lavoro sommerso. Con la crisi si sono persi circa 60mil posti e c’è stato un peggioramento delle condizioni contrattuali, “I prodotti cambogiani destinati all’esportazione provengono essenzialmente dal settore tessile e calzaturiero, quindi prodotti ad alta intensità di lavoro ma di basso valore aggiunto. Il 70 per cento è destinato al mercato statunitense, per cui ogni flessione nel mercato Usa , si riflette immediatamente nel settore occupazionale cambogiano”.
Nel 2010 il salario medio è stato di circa 61 dollari al mese. Non a caso, all’inizio di febbraio l’organizzazione Asia Floor Wage ha proposto l’istituzione di un tribunale del popolo per il salario minimo e decenti condizioni di lavoro. Non una vera corte, ma un organismo d’opinione per sensibilizzare l’opinione pubblica e il governo, lasciando gli operai liberi di raccontare le proprie storie.
“A partire dai primi anni Novanta, con agli accordi di Parigi che hanno consentito l’inizio della pacificazione, la Cambogia ha impostato e perseguito un modello di sviluppo caratterizzato dalla creazione di infrastrutture per ospitare le industrie manifatturiere delle multinazionali”.
Come altri Paesi del Sudest asiatico anche il regno cambogiano è caratterizzato da bassi costi di produzione e da una quasi assenza delle rappresentanze sindacali intimidite dai governi e dagli investitori. Così, la Cambogia è entrata nell’ambito delle economie in transizione fondate sull’esportazione.
“È importante notare che questo modello è stato voluto dall’amministrazione USA di Clinton (uno dei paesi donatori) per dimostrare che l’impostazione basata sulle produzioni a basso valore aggiunto e sulle esportazioni in uno scenario di post guerra civile avrebbe garantito la riduzione della povertà nel più breve tempo possibile”, ci ha spiegato ancora Mocci.
“Dal 2000, questo modello di sviluppo ha profondamente mutato il tessuto sociale del Paese nell’arco di una decina d’anni. Si è passati da un sistema caratterizzato quasi esclusivamente dalla produzione agricola, a un sistema in cui l’agricoltura rappresenta soltanto un quarto del Pil, mentre crescono manifatturiero, costruzioni e servizi, legati soprattutto al turismo”.
[Pubblicato su Rassegna.it] [Foto credit: newshopper.sulekha.com]