Speciale Fukushima – I sei ingredienti della catastrofe

In by Simone

Sei errori fatali che hanno segnato il destino catastrofico di Fukushima. Li elenca Alessandro Farruggia nel suo Fukushima – La vera storia della catastrofe nucleare che ha sconvolto il mondo. China Files ve ne regala un estratto, (per gentile concessione della casa editrice Marsilio).
La catastrofe di Fukushima è figlia di una serie di scelte progettuali determinate da una sola volontà: ridurre i costi. Errori clamorosi, uno dopo l’altro, hanno creato la ricetta perfetta per la tragedia.
Se solo fossero state prese una serie di misure ingegneristiche e organizzative atte a scongiurarlo, dopo il terremoto e lo tsunami, l’impianto non sarebbe precipitato in una crisi dell’ampiezza di quella verificatasi.

Gli errori che è possibile evidenziare sono almeno sei.

1. Abbassamento dei livelli di costa
Il primo e quasi incredibile tarlo nella sicurezza della centrale è stato quello di costruirla troppo vicino al livello del mare, esponendola fatalmente al rischio tsunami. Come scriveva l’ingegner Hiroshi Kaburaki nel numero di dicembre del 1969 della rivista di settore Hatsuden Suiyoroku, "abbiamo deciso di costruire l’impianto quasi al livello del mare dopo aver valutato i costi operativi di costruzione di una centrale posta a 34 m di altezza, soprattutto in relazione al pompaggio dell’acqua di mare per il sistema di raffreddamento".

La costa di Fukushima dove è sorta la centrale era una scogliera alta 34 m – qualcosa di simile al sito della centrale nucleare di Flamanville, in Francia; la Tepco decise di spianarla portando il piano della centrale a soli 10 m (13 per i reattori 5 e 6) sul livello del mare, con uno scavo di 14 m (quindi 4 m sotto il livello del mare) per ospitare il reattore e le turbine. Se la centrale fosse stata costruita sulla costa originaria, a 34 m di altezza, l’incidente non sarebbe stato così grave. Di certo lo tsunami non l’avrebbe danneggiata se non, eventualmente, per le parti in mare.

2. Minimizzazione del rischio sismico
La sottovalutazione è stata una costante nella storia di Fukushima. Anche e soprattutto del rischio terremoto: "Negli ultimi 700 anni – scrivevano nel 1966 i sismologi che lavoravano per conto della Tepco nella richiesta di autorizzazione della centrale – Fukushima non ha avuto alcun danno degno di nota a causa di terremoti. Per cui si può concludere che l’area sia a bassa sismici- tà rispetto al resto del Paese".

In un cablogramma diplomatico trasmesso nel 2008 e ottenuto da Wikileaks, gli esperti dell’Aiea dissero chia-ramente, a un incontro del Nuclear safety and security group del G8 che si riunì a Tokyo quell’anno, che le linee guida della sicurezza dei reattori nucleari giapponesi erano datate, in particolare che "le linee guida per la sicurezza sismica sono state riviste solo tre volte negli ultimi trentacinque anni e che in recenti terremoti in alcuni casi si sono superate le specifiche di progetto per alcuni impianti, il che pone un serio problema".

Ma la linea era: minimizzare. Katsunobu Onda, autore nel 2007 del libro Tepco, l’impero oscuro, spiega anche il perché: "Se il governo giapponese e la Tepco avessero ammesso che un terremoto poteva creare danni alla centrale, questo, in un paese sismico come il Giappone, avrebbe lanciato sospetti sulla sicurezza di tutti i reattori". Una minaccia mortale che andava evitata a ogni costo.

3. Sottostima del rischio tsunami
Oltre al rischio terremoto si sottostimava anche – diremmo di conseguenza – il rischio tsunami, ipotizzando nel progetto iniziale che l’onda massima che ci si poteva aspettare – calcolata sulla base dell’onda osservata al porto di Onahama dopo il grande terremoto cileno del 1960 – fosse di 3,1 m.

Nel 2002 la Tepco, seguendo le indicazioni della società giapponese di ingegneria civile, aggiornò la previsione facendola crescere di poco più di due metri – fino a 5,7 – e di tanto alzò il muro di protezione a mare. Ancora drammaticamente poco se si considera che la non lontana centrale di Onagawa aveva fissato il rischio tsunami a 9,1 m, ma almeno avrebbe garantito una protezione maggiore.

4. Design progettuale inadeguato
Il quarto errore è relativo al design del contenimento dell’unità 1 di Fukushima: il cosiddetto "Mark 1". Trentacinque anni fa – il 2 febbraio 1976 – i ricercatori Dale Brindenbaugh, Gregory Minor e Richard B. Hubbard della General Electric si licenziarono dall’azienda americana perché si erano convinti che il design del reattore che stavano rivedendo – il Mark 1, appunto – potesse portare a un grave incidente.

Il problema, che noi identificammo nel 1975 – ha detto Brindenbaugh alla abc3 – consisteva nel fatto che nel fare la progettazione del contenimento non sono stati considerati i carichi dinamici che si sarebbero verificati in caso di perdita del liquido di raffreddamento. I carichi che il contenimento avrebbe avuto con questo rapido rilascio di energia rischiavano di farlo saltare e creare un rilascio incontrollato. Non ci diedero ascolto e ce ne andammo per non diventare corresponsabili. E devo dire che, nonostante una serie di miglioramenti che pure sono stati aggiunti successivamente, il Mark 1 resta un po’ più suscettibile di altri reattori alla perdita di liquido refrigerante.

5. Il "vessel" difettato
Il vessel del reattore 4 era difettato dal 1974. A denunciarlo fu Mitsushido Tanaka che lavorava alla fonderia della Hitachi Ltd a Kure, nella prefettura di Hiroshima, dove venne costruito il vessel in questione.

Una volta raffreddato il metallo – hanno scritto Giulia Pompili e Marco Pedersini sul Foglio il 13 ottobre 2011 – i tecnici si accorsero che le pareti del cilindro si erano deformate. La Hitachi non poteva consegnare un pezzo palesemente fallato (che per di più era costato 250 milioni di dollari). Bisognava trovare un modo per riportarlo entro i limiti di tolleranza e di questo fu incaricato il giovane ingegnere Tanaka, appena laureato al Tokyo institute of techonology.

Mentre Tanaka ci lavorava, i tecnici coprirono il pezzo con un telo e quando la Tepco mandò un ispettore per sapere a che punto è il pezzo, i manager della Hitachi lo portarono a giocare a golf e lo fecero ubriacare. Nel frattempo l’ingegner Tanaka trovò un modo, attraverso un sistema di pompe idrauliche, per rettificare il pezzo che venne consegnato alla Tepco sorvolando sui problemi.

Nel 1988, due anni dopo Chernobyl, Tanaka denunciò tutto al Meti (Ministero dell’Economia, Tecnologia e Industria, ndr), ma la Hitachi negò e il ministero le credette. E così la scocca fallata divenne il cuore del reattore 4. Il fatto che al momento del terremoto quel reattore fosse fermo e senza combustibile ha così probabilmente fatto in modo che i reattori in meltdown fossero “solo” tre.



6. Sistemi di emergenza a rischio tsunami
Il sesto errore inscritto nel dna di Fukushima Dai-ichi fu quello di voler risparmiare sui costi di realizzazione delle parti non nucleari della centrale. I primi cinque reattori di Fukushima Dai-ichi furono infatti costruiti – seguendo pedissequamente il progetto originario della General Electric senza adeguarlo alle condizioni del sito – mantenendo i generatori di emergenza e i quadri elettrici non all’interno del più protetto edificio del reattore ma nei locali turbine.

Questa scelta progettuale ha fatto sì che i quadri elettrici e i generatori di emergenza siano stati sommersi e spazzati via dall’onda di tsunami.

A questo occorre poi aggiungere il fatto che tutti i generatori meno tre, erano raffreddati ad acqua, e non ad aria, mentre le pompe a mare erano situate a un’altezza di poco superiore al massimo tsunami atteso (5,70 m) e non avevano protezioni contro i maremoti.
In caso di tsunami, gli impianti che avrebbero dovuto garantire energia in situazione di emergenza erano quindi predestinati a crollare come un castello di carte, lasciando i reattori indifesi.

[Foto credit: nukesofhazardblog.com]

*Alessandro Farruggia è un giornalista del Quotidiano Nazionale. Da sempre si occupa di ambiente, energia ed esteri. Il suo libro Fukushima – La vera storia dela catastrofe nucleare che ha sconvolto il mondo è in uscita in questi giorni per le edizioni Marsilio. Farruggia ha anche un blog.