Wang Shu. Una bussola per l’architettura sostenibile

In by Simone

Il prestigioso premio di architettura Pritzker sarà assegnato per la prima volta a un cinese, Wang Shu. Un architetto che ha riscoperto antiche tecniche edilizie, trovandole più efficenti delle nuove in termini di ecologia, durata ed efficienza termica. E che non ha mai lavorato fuori dalla Cina.
La sede della cerimonia di premiazione del Pritzker Architecture Prize**, fissata per il prossimo 25 maggio, sarà proprio Pechino. Pensando al cospicuo numero di progetti di architetti già vincitori del Pritzker, completati o in via di completamento, sul territorio nazionale, la Cina è sembrata una location “particolarmente appropriata” dalla Fondazione Hyatt. Tra i tanti ricordiamo la New Opera House a Guanzhou di Zaha Hadid, che fa parte della giuria di quest’anno.

Le stesse autorità cinesi si sono dette ben contente di ospitare la cerimonia di premiazione. D’altronde proprio lo scorso anno Pechino aveva istituito l’importante evento del Beijing Design Week, che ha sancito il definitivo passaggio dal made in China al designed in China.

La scelta di premiare il quarantottenne Wang Shu non era ovvia. Sicuramente non è un’archistar del calibro di Norman Foster, Zaha Hadid, Jean Nouvel o Rem Koolhas, solo per citare alcuni degli illustri precedenti vincitori di questo premio.

Oltre ad essere il primo architetto cinese a vincere il Pritzker (I. M. Pei è cittadino statunitense), Wang Shu è l’unico architetto che ha lavorato solamente all’interno della Repubblica popolare.

Altrettanto può dirsi della sua formazione: laureato presso l’Institute of Technology di Nanchino nel 1985, ha conseguito nel medesimo istituto il successivo master per poi iniziare la carriera universitaria presso l’ Accademy of Fine Arts dello Zejiang con sede ad Hanzhou, città storica a sudovest di Shanghai, e scelta dall’architetto come città di residenza proprio in virtù dei suoi famosi paesaggi naturali che hanno ispirato molti pittori della tradizione cinese.

Dal 2000 dirige il Dipartimento di Architettura della China Accademy of Art a  Hangzhou e nel 1997  ha fondato con sua moglie, l’architetto Lu Wenyu, lo studio associato Amateur Architecture Studio, il cui nome punta a spostare l’attenzione sull’aspetto artigianale dell’architettura proprio in contrapposizione all’attuale spersonalizzazione della pratica architettonica.

La stessa giuria del premio ha d’altronde puntualizzato come tale “urbanizzazione, qui come nel resto del mondo, debba essere in armonia con i bisogni e la cultura locale. Le nuove opportunità della Cina per la pianificazione urbana e il design vorranno essere in armonia con le proprie tradizioni del passato, tanto antiche quanto uniche, e con le proprie necessità future per uno sviluppo sostenibile”.

E in effetti bisogna dire che rispetto a molti dei precedenti vincitori del premio, le cui opere sono spesso collocabili in un qualsiasi contesto fisico e ambientale, gli edifici di Wang Shu sono assolutamente cinesi nelle forme, nelle tecnologie e nei materiali. E allo stesso tempo non hanno nulla a che vedere con i rifacimenti integrali, tipici in Cina, di edifici o – addirittura –  di interi quartieri che li fanno somigliare a set cinematografici di film storici e lasciano noi europei sempre un po’ perplessi.

Le architetture di Wang Shu riprendono sia i temi e le suggestioni degli edifici storici che i materiali  e le tecniche di costruzione, e li reinterpretano in forme assolutamente contemporanee e di eccezionale raffinatezza.

Lo stesso architetto Alejandro Aravena, membro della giuria, ha sottolineato come l’opera di Wang Shu sia in grado di trascendere il dibattito sulla necessità di ancorare il linguaggio architettonico alla tradizione o viceversa di guardare verso il futuro, “producendo un’architettura senza tempo, profondamente radicata nel suo contesto e tuttavia universale”.

A ciò si aggiunga una straordinaria flessibilità nell’affrontare sia progetti monumentali, come il bellissimo Museo Storico di Ningbo, che contesti minori con edifici più contenuti e un’attenzione particolare per gli spazi aperti, come nel Campus di Xingshan dell’Accademia Cinese d’Arte di Hangzhou.

Oltre a varie onorificenze per le sue opere, lo scorso anno Wang Shu è stato anche il primo architetto cinese ad avere il ruolo di visiting professor di Kenzo Tange alla Harvard Graduate School of Design di Cambridge, Massachusetts e ha tenuto lezioni in diverse università del mondo.

In Italia ha ricevuto nel 2010 una menzione speciale per la sua installazione Decay of a Dome alla Biennale d’Architettura di Venezia cui aveva partecipato già nel 2006 con l’istallazione Tiled Garden. E sono proprio dettagli come le tegole recuperate da edifici demoliti l’espressione della critica alla rapida urbanizzazione della Cina che ha stravolto l’identità di vaste aree del paese.

Il riutilizzo dei materiali di scarto provenienti da altre costruzioni è un tratto distintivo delle opere di Wang Shu. Come sottolineato da Alejandro Aravena in riferimento al Museo Storico di Ningbo, il senso profondo di questa scelta non va letto solo in termini di sostenibilità, ma anche in funzione della capacità di “introdurre una storia nella costruzione, dando a un muro un’overdose di tempo senza la necessità di attendere il suo invecchiamento”. In modo da rendere un edificio diventa “un pezzo unico e irripetibile”.

Oltre al valore estetico e concettuale, questo ha una ricaduta fondamentale sul processo di costruzione. Ci si apre alla possibilità di recuperare tecniche costruttive tradizionali dell’architettura minore, la cui prassi era il riutilizzo dei materiali.

In un’intervista al Financial Times, Wang Shu racconta della sua prima abitazione dopo le nozze: un hangtu, ovvero una casa in terra battuta. Ecco un esempio dell’antica tecnica edilizia cinese: si riempi un’intelaiatura di legno con terra cruda, poi battuta col martello.

Questa tecnica, oltre ad essere estremamente economica, presenta vantaggi in termini di ecologia, durata ed efficienza termica, mantenendo l’edificio caldo nei periodi invernali e fresco in quelli estivi. Una tecnica antica, attualmente utilizzata solo in zone dove il progresso non è ancora arrivato e, sicuramente, studiata più dagli archeologi che dagli architetti.

Wang Shu l’ha riscoperta e ristudiata e, nel 2000, ha costruito con il suo studio una piccola struttura in terra battuta in un parco di Hangzhou. Si tratta di una pratica riconducibile all’insieme delle cosiddette tecnologie appropriate, in auge negli anni Settanta e oggi relegata ad alcuni ambiti della bioedilizia che privilegiano l’attualizzazione di tecnologie tradizionali ai sistemi industriali e hi-tech (e che spesso consumano in fase di produzione quello che poi risparmiano in fase di esercizio).

A ben vedere l’azione di recupero messa in atto dall’architetto Wang Shu riguarda sì il materiale da costruzione, ma ancora più i saperi dei mestieri tradizionali, rimaste fuori dai processi produttivi contemporanei, con il conseguente pericolo della loro scomparsa o del loro impiego esclusivo nei processi di restauro (e non è sicuramente questo il caso della Cina).

La metodologia di lavoro collaborativa di Wang Shu consiste proprio in un dialogo continuo con le varie maestranze in fase di costruzione, un dialogo che getta le basi per quel processo di mutuo apprendimento a cui ciascuno contribuisce con le proprie competenze.

Proprio in questa dialettica è possibile la sintesi tra locale e globale: una bussola che dovrebbe orientare anche l’architettura occidentale.

Torna alla mente una definizione dell’architetto Franco Purini: “l’architettura è un muro”. Nel caso in cui si tratti di un muro di Wang Shu si può anche essere d’accordo.

*Martina Savarese è laureata in Disegno Industriale e, dopo alcune esperienze nel campo dell’architettura, lavora in uno studio di grafica e collabora all’elaborazione di piani urbanistici. È appassionata di cultura e lingua e cinese. Eclettica.

**Il Pritzker Architecture Prize è stato istituito nel 1979 ad opera della famiglia Pritzker attraverso la Fondazione Hyatt ed è da molti considerata la massima onorificenza nel campo architettonico, sostanzialmente l’equivalente del Nobel. Il premio viene assegnato annualmente per “onorare un architetto vivente il cui lavoro dimostri una combinazione di qualità quali talento, intuito e impegno che abbiano prodotto consistenti e significativi contributi all’umanità e all’ambiente costruito attraverso l’arte dell’architettura”. Probabilmente non è un caso che tale premio sia stato istituito proprio da una famiglia di imprenditori il cui core busiess risiede nel settore della ricettività di alto livello e che questi provengano proprio da Chicago, una città simbolo per l’architettura moderna.

*** L’album fotografico delle opere di Wang Shu è scaricabile qui.