Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
4 marzo 2010, 10:38
Sul confine tra lavoro e privato
Nonostante tutto, ancora mi stupisco.
Stiamo tornando dal pranzo, siamo in taxi, mi domanda: "hai visto Y. di recente (è la parrucchiera giapponese da cui vado anche io)?"
"No, ma andrò sabato"
"Ah, allora dille che andrò anche io"
Mio silenzio imbarazzato (della serie: e sti cazzi?). Evidentemente lui si aspettava una mia domanda che non arriva né mi sogno di fare. Attende qualche secondo, poi continua imperterrito: "Preferibilmente martedì".
Sono basita, rispondo di sì (penso: per fortuna tra un po’ se ne parte….) e mi volto dall’altra parte sbuffando quasi impercettibilmente (ma, spero, quel tanto che renda lo sbuffo avvertibile).
Più tardi, in ufficio. Arriva la ditta giapponese che deve organizzare il suo trasloco, è quasi ora di andare via.
Sono al telefono e non me rendo subito conto. Quando attacco, lui entra e mi dice: "Ancora pochi minuti, ok?". Rispondo ok, poi guardo l’ora e mi accorgo che il mio orario di lavoro è finito. Prendo le mie cose e me ne vado.
Però mi domando: perché mi chiede di aspettarlo? Fa parte anche quello del lavoro? Ogni volta devo attendere una sua autorizzazione, per andare via, per restare, per fare qualunque cosa. E’ follia, è mancanza di rispetto, come se fossi la sua fedele ancella sempre e comunque. Quando gli ho detto che era sciovinista si è pure stupito e non capiva perché.
Mi ripeto come un mantra: tra poco parte, tra poco parte, tra poco parte, tra poco parte…
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)