(In collaborazione con AGICHINA24) Nessun Losar: cinque milioni di tibetani inizieranno il nuovo anno in silenzio. Differenze sociali e economiche tra tibetani e han, scolarizzazione bassa, militarizzazione delle aree sensibili e autoimmolazioni. Il reportage dai monasteri tibetani del Qinghai.
Il Losar, la festa tradizionale che inizia domani, apre il calendario dei tibetani e inaugura anche il periodo più rischioso dell’anno nel braccio di ferro tra i monaci fedeli al Dalai Lama e il governo di Pechino.
Da mercoledì in poi, in queste zone, si entra nella zona rossa che culminerà tra il 10 marzo – anniversario della fuga del Dalai Lama in India – e il 14 marzo, in cui ricorrono i sanguinosi scontri del 2008 a Lhasa.
Le premesse sono le peggiori possibili da diverso tempo a questa parte: solo nelle ultime due settimane, secondo le organizzazioni pro-Tibet, tra le province del Sichuan e del Qinghai si sono autoimmolati nove monaci.
I più importanti monasteri del Sichuan sono circondati dalle forze di sicurezza, e se nel Qinghai la presenza della polizia sembra meno pressante, monaci e fedeli raccontano le loro preoccupazioni.
"Quest’anno le autorità ci hanno impedito le celebrazioni" ammette ad AgiChina24 un giovane monaco di Kumbum, uno dei santuari più importanti della zona.
Alla vigilia del Losar, solo pochi pellegrini sul percorso per purificarsi l’anima che si snoda attraverso le colline. "I festeggiamenti sono proibiti per via dei problemi degli ultimi giorni, voi sapete quali. Non posso dire di più".
Reticenti in gruppo, i monaci si aprono quando sono in coppia: "Kumbum è pieno di spie – dice uno – e quando siamo in tanti non parliamo tra noi del Dalai Lama. Io lo faccio solo con chi conosco da quando eravamo bambini".
Racconta di un confratello imprigionato perché sorpreso a scaricare da internet materiale sul Dalai Lama, che secondo Pechino complotta per separare il Tibet dalla Cina e restaurare la teocrazia. "E’ stato scarcerato ed è riuscito a fuggire in India. Riusciamo ancora a tenerci in contatto in qualche modo, scapperei anch’io, ma è troppo pericoloso", dice, e fa il segno della pistola senza aggiungere altro.
Nella versione dei monaci, i tibetani del Qinghai sono scontenti perché non hanno le stesse possibilità economiche dei cinesi. Aumenta la presenza della polizia, diminuisce la scolarizzazione.
Un giovane di 18 anni in pellegrinaggio con la madre ha un approccio più positivo sull’istruzione:"Frequento un liceo con cinesi Han e musulmani. Ho amici cinesi. Ma i corsi di tibetano restano esclusivamente per tibetani".
Qualcuno riesce a sfuggire alla povertà che domina le aree tibetane, come un pellegrino che ha aperto un’attività legata al turismo: "Molti cinesi vengono a stare da me per le vacanze, frequento alcuni di loro da anni, ormai. Il problema non sono loro".
"Sono i loro amici – dice enigmatico – quelli che magari vanno a riferire ai funzionari". Che cosa possano riferire di così compromettente lo racconta una ventenne che vive sul lago Qinghai, a qualche ora di distanza dal monastero di Bongtak, teatro venerdì scorso dell’ultima autoimmolazione della zona.
Per gli standard locali è una ragazza ricca: la sua famiglia ha un’attività che le permette di frequentare l’università di Xiling. In casa, ha un altare dedicato al Dalai Lama e al Panchen Lama scomparso nel nulla da anni, quello che Pechino ha sostituito con un monaco gradito alle autorità.
"La polizia entra in casa periodicamente e cerca immagini del Dalai Lama – racconta- quando le trova, ci costringe ad andare tutti insieme al villaggio e bruciarle".
La studentessa sa tutto sull’ondata di suicidi, e la giustifica: "Le voci tra noi si spandono molto velocemente. Si, il suicidio è un atto molto forte. Ma qui ne va della nostra libertà, libertà religiosa e libertà economica. Certo, se mi paragono ad altri tibetani sono fortunata. Ma in un confronto coi cinesi Han, avrò sempre meno opportunità. Tutti qui vogliamo il ritorno del Dalai Lama, è il nostro leader religioso. Iniziare a concedercelo sarebbe aumentare le nostre libertà".
Ma i negoziati tra Pechino e Dharamsala si sono interrotti nel 2010, e a meno di una svolta improbabile non riprenderanno proprio ora. Nelle stesse ore in cui le forze dell’ordine si stringono sempre di più attorno al monastero di Bongtak e lo rendono irraggiungibile, il governo cinese non lascia margine di negoziato: "Secondo le nostre indagini, alcune delle immolazioni di questi giorni sono da collegarsi direttamente al Dalai Lama e al suo gruppo – ha detto nel pomeriggio il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino Hong Lei – che sta pervertendo i principi del buddismo e i principi morali. Chiediamo alla ‘cricca del Dalai Lama’ di cessare queste pratiche e a tutte le forze competenti di stabilizzare la situazione nelle aree tibetane".
Lungo la strada di ritorno a Xining alcuni convogli dell’esercito si dirigono verso le zone più a rischio. Ordinaria amministrazione o l’imponente rafforzamento delle misure di sicurezza e repressione che il leader del governo tibetano in esilio Lobsang Sangay ha denunciato settimane fa? Tra qualche ora cinque milioni di tibetani inizieranno il nuovo anno in silenzio. E sembrano avere ben pochi progressi da festeggiare.