Capodanno tibetano. I monaci che si sono dati fuoco, in un atto di protesta contro le autorità di Pechino sono 21 dal marzo scorso e alcune zone tibetane sono completamente isolate. E il governo continua a militarizzare i territori e a ridurre il malcontento a “proteste pochi monaci”.
Quando la settimana scorsa Xi Jinping, l’uomo che secondo tutti i pronostici dovrebbe diventare presidente della Repubblica popolare cinese il prossimo autunno, era a Washington, un corteo di più di 200 persone marciava sulla Casa Bianca scandendo slogan pro-Tibet: “la Cina mente e il Tibet muore”. Dall’ambasciata cinese nella capitale Usa nessun commento.
Nel frattempo a Pechino, nell’ambito del Vertice Cina-Unione europea, Wen Jiabao, attuale premier della seconda potenza economica mondiale, rispondendo a un giornalista straniero, dichiarava che quelle pro Tibet sono “solo proteste pochi monaci”, e non sono assolutamente espressione della volontà popolare cinese. Nessun accenno alle autoimmolazioni che negli ultimi mesi si sono fatte sempre più frequenti.
Secondo le organizzazioni che lottano per l’indipendenza del Tibet, sono ventidue i monaci che si sono dati fuoco dal 27 marzo 2009 (più forse anche altri tre il 3 febbraio 2012 che non sono mai stati confermati), per protestare contro l’occupazione cinese.
Di questi, ventuno solo dal marzo dello scorso anno. I monaci che scelgono questo disperato gesto di protesta hanno perlopiù una ventina d’anni (solo sei più di trenta) e sono maschi (solo tre donne). Di quindici si sa per certo che sono morti, gli altri sono stati presi in custodia dalle autorità cinesi.
L’ultimo disperato gesto che le cronache riportano risale al 17 febbraio, un monaco quatantenne si è dato fuoco a Themchen, nella regione del Qinghai. Ancora si sa poco e niente, ma la storia di chi l’ha preceduto è esemplare dei tristi atti che hanno preceduto il Losar, il capodanno tibetano.
Le cronache del governo tibetano in esilio riportano infatti che Kirti monk Losang Gyatso, un monaco di 19 anni, si sarebbe dato fuoco il 13 febbraio sulla strada principale di Aba gridando slogan contro il governo cinese. In un attimo la polizia armata che sorveglia la città, gli sarebbe stata addosso. Alcuni ufficiali avrebbero spento le fiamme con un estintore e lo avrebbero trascinato via di forza, picchiandolo. Di lui, come degli altri, non si è saputo più nulla.
Più della metà dei monaci che hanno scelto questo disperato atto di protesta, sono della prefettura di Aba, una città del Sichuan nordoccidentale che storicamente ha sempre fatto parte del territorio tibetano, ma che non è entrata a far parte della Regione autonoma del Tibet.
La zona è militarizzata. Le autorità hanno bloccato tutte le connessioni telefoniche, come avevano fatto nel 2009 nello Xinjiang, quando gli scontri tra han e uiguri occorsi a Urumqi avevano causato almeno 200 morti. Numerosi checkpoint sulle strade principali tengono lontani gli osservatori esterni, specialmente i giornalisti.
Solo due giornalisti sono riusciti a entrare tra mille difficoltà. Il Guardian, in un articolo e un video usciti il 12 febbraio, ha documentato come le autorità stanno cercando di placare il dissenso attraverso l’impiego di forze dell’ordine, propaganda e campagne di rieducazione.
Il giornalista del Guardian racconta che la zona sarebbe militarizzata come alcune zone di guerra del Vicino Oriente o dell’Irlanda del Nord, con la differenza che qui la violenza è solamente auto-inflitta.
Stando a quello che ha visto, gli abitanti sarebbero costretti a mostrare la loro fedeltà al governo cinese. Le bandiere della Repubblica popolare sventolano su ogni edificio e giganteschi slogan inneggiano alla necessità di stabilità e di armonia in funzione del raggiungimento dello sviluppo economico.
Non tutti però sarebbero d’accordo con questo genere di lotta. Secondo un monaco intervistato, ad esempio, le autoimmolazioni “sono un atto estremista” mentre la comunità buddista avrebbe solamente “bisogno di pace”.
La tensione è tornata a crescere – come ogni anno – in prossimità del capodanno, quest’anno il 23 febbraio, e del marzo tibetano. In questo mese, infatti, sono tre le date calde: il 10 marzo è l’anniversario dalla fuga in India del Dalai Lama; il 14 marzo è la data simbolo dalla repressione di Lhasa che nel 2008 ha preceduto i giochi olimpici e, infine, il 28 è la festa imposta dal governo cinese per celebrare l’annessione del paese al resto della Cina.
Ma quest’anno anche il capodanno cinese è stato causa di scontri. Le cronache locali hanno riportato che a fine gennaio un numero imprecisato di tibetani della prefettura autonoma di Ganzi (sempre nella parte tibetana della regione del Sichuan) avrebbe assaltato le stazioni di polizia per protestare contro l’imposizione della festività cinese. Gli agenti di polizia avrebbero quindi aperto il fuoco contro la folla, uccidendo almeno due dei manifestanti. Tutto mentre gli han festeggiavano il nuovo anno lunare.
La voce di Pechino si è quindi inasprita, minacciando di licenziare i funzionari di stanza nelle regioni tibetane se non avessero saputo mantenere la stabilità dei territori. Ha detto la sua anche Lobsang Sangay, il primo ministro del governo tibetano in esilio, che ha dichiarato al Financial Times: “lo schieramento di militari sta aumentando rapidamente. Abbiamo visto le immagini di centinaia di convogli pieni di forze paramilitari con mitragliatrici automatiche che si spostano verso diverse zone tibetane. Siamo davvero preoccupati – ha aggiunto – temiamo che il governo cinese si stia preparando per qualcosa di molto drastico e imprevedibile e tragico”.
Di certo anche i tibetani sono sempre più esasperati. È dal 2010 che non c’è dialogo tra il governo cinese e quello in esilio del XIV Dalai Lama. E, nonostante a marzo dello scorso anno il capo spirituale del buddismo lamaista abbia rinunciato al potere politico di capo del governo tibetano in esilio, Pechino si ostina a definirlo – nella migliore delle ipotesi – un semplice separatista.
[Scritto per Lettera43; Foto Cecilia Attanasio Ghezzi]