India – Banglitalia: dal fascismo a Fellini

In by Simone

Cosa c’entra Rossellini con il Bengala e cosa c’era scritto nel poema inviato da Madhusudan Dutt a re Vittorio Emanuele II? Una panoramica sugli impensabili e solidissimi rapporti culturali tra Italia e India, tra scambi cinematografici e ispirazioni letterarie.
Nel 1956 il rinomato regista nostrano Roberto Rossellini lasciò la sua villa di Santa Marinella, ridente cittadina del litorale laziale dove dimorava insieme alla compagna Ingrid Bergman, per intraprendere un fruttuoso viaggio-documentario in India.

Fruttuoso, nel senso che al suo rientro Rossellini portò con sé un progetto per un lungometraggio sulla Terra Madre (India – Matri Bhumi, 1959), uno script per una serie televisiva in dieci puntate dedicate all’India, e una giovane donna bengalese della metà dei suoi anni, precedentemente maritata e accompagnata da figlio in fasce, destinata ad essere famosa con il nome da coniuge, Sonali Rossellini.


Difficile immaginare la faccia dei cuochi e dei giardinieri della villa di Santa Marinella quando Rossellini arrivò dopo nove mesi in Asia con una donna scura, introversa e intabarrata nel suo sari, per giunta con figlio a seguito (nel frattempo la Bergman si era già dileguata, pronta a risposarsi con il regista Lars Shmidt).

Fortunatamente le rivelazioni del giardiniere e della moglie, scioccati dalla rapida sostituzione della biondona svedese con esotica fuggiasca bengalese con tanto di “simpatico negretto” a carico, sono tuttora custodite nel sito web dell’Istituto scolastico di Santa Marinella.

A prescindere dalle love-story da spettegolare fra i rotocalchi hollywoodiani, Italia e Bengala (intendendo per “Bengala” la regione linguistica e culturale indivisa di cui facevano parte prima della Spartizione sia il Bengala Occidentale che il Bangladesh) hanno avuto molteplici punti di incontro nel corso dei secoli e tutt’ora vantano numerose occasioni di scambio letterario e culturale.



Cominciamo dal diciannovesimo secolo, l’era del così detto Rinascimento Bengalese, epoca di riforme sociali, della filantropia in salsa indù e della curiosità verso il pensiero europeo. In questo periodo, Micheal Madhusudan Dutt, gigante della letteratura moderna in bengali, comincia a scrivere sonetti alla maniera di Petrarca (vedi l’opera Caturdaspadi Kabitabali) assicurandosi l’immortalità fra i letterati della sua madre lingua.

Convertito al cristianesimo e sposato con la francese Emilia Henrietta, si reca in Francia per soggiornare a lungo presso Versailles. Qui comincia a studiare l’italiano per avvicinarsi ai capolavori di Dante e Petrarca, da cui è grandemente affascinato.

Nel 1865, in occasione del seicentesimo anniversario di Dante Alighieri, Madhusudan Dutt invia a Vittorio Emanuele II Re d’Italia una missiva contenente un sonetto in bengali dal titolo “Dante il Poeta” (Kabi Dante, riportato a fine articolo in una felice resa inglese) accompagnato dalla sua traduzione in francese e dalla dedica, “une petite fleure orientale”.

Il ministro del Re invia in risposta una lettera secondo la quale il sovrano si dice estremamente lieto di come “il genio italiano avesse trovato eco sulle rive del Gange” – fiume le cui sacerrime sponde vengono citate ben tre volte all’interno della Divina Commedia! – e di come l’Italia avrebbe potuto fungere da “anello per poter unire Oriente e Occidente”.

Per ribadire la grande influenza esercitata dall’arte e dal pensiero rinascimentale italiano in terra bengalese, fra le pubblicazioni più recenti nel Bengala Occidentale compaiono i titoli “Italir Renesans Bangalir samskriti” (Rinascimento italiano e cultura bengalese, di Amalesh Tripathi, Ananda Publishers) e le traduzioni in lingua bengali del Principe di Machiavelli e dei taccuini di Leonardo Da Vinci (entrambi editi da Jadavpur Press, 2012).

Fra le ispirazioni più produttive provenienti dal Bel Paese è senza dubbio prominente la dimensione cinematografica.
Il cinema bengali è celebre per aver inaugurato la nouvelle vague della settima arte in India con il filone detto parallel cinema o art cinema che corre, per l’appunto, parallelo alla preponderante produzione d’intrattimento commerciale capitanata da Bollywood.

Ben noto per il suo stampo realista, naturalista e particolarmente attento alle problematiche sociopolitiche della contemporaneità, il cinema parallelo debutta in Bengala tramite la macchina da presa del famoso regista Satyajit Ray (premiato ai film festival di Cannes, Berlino e Venezia per la sua opera più rinomata, la Trilogia di Apu) e continua con lavori di alta qualità sotto la regia dai toni politicamente più accesi di Ritwik Ghatak e Mrinal Sen.

Satyajit Ray non nascose di essersi ampiamente ispirato ai lavori di Fellini e al neorealismo italiano e pare abbia avuto una folgorazione dopo la proiezione di Ladri di biciclette a cui assistì a Londra nel 1950.
Secondo quanto riportato da Robinson (Satyajit Ray: a vision of Cinema, 2005), Satyajit Ray uscì dal teatro e si dichiarò determinato nel diventare un regista.

Sarebbe bello potersi inorgoglire al pensiero dell’immagine di un’Italia di poeti e raffinati artisti, ma presso la stragrande popolazione bengalese, che con l’arte ha ben poco a che fare, il contributo italiano più conosciuto in patria consiste nel fascismo.

A Santiniketan, nel Bengala Occidentale, l’Italia fascista spedì nel 1925 una collezione di classici italiani da destinare alla biblioteca universitaria insieme a due emeriti orientalisti, Giuseppe Tucci e Carlo Formichi, per arricchire delle loro esperienze l’università cosmopolita e illuminata di Visva Bharati, fondata dal premio Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore.

Di fatto, durante la lotta per l’Indipendenza, due grandi personalità del Bengala visitarono l’Italia e incontrarono personalmente il Duce, seppur per motivi molto diversi: Subhash Candra Bose, leader della lotta armata contro i colonizzatori britannici e ricordato dalle masse come emerito e veneratissimo freedom fighter, cercò aiuto militare ed economico presso i nemici dell’Inghilterra disseminati attorno l’asse Roma-Tokyo-Berlino ed incontrò Mussolini per la prima volta nel 1934, prendendo l’Italia fascista a modello per una nuova India liberata.

Molti anni prima del belligerante Bose, il poliedrico intellettuale Rabindranath Tagore visitò Mussolini a Napoli nel 1926, dove venne ricevuto in pompa magna, e rimase estremamente colpito dalla personalità del Duce, “raffinata” e piena di “vigore, simile alle cesellature di Michelangelo”.

Dopo qualche mese in Svizzera, dove conobbe gli intellettuali fuggiti dalla repressione del regime, comprese la svista e si rimangiò tutto. Combattuto fra ammirazione per il carisma e opinabilità dei mezzi, la relazione fra Tagore e Mussolini rimane avvolta da dibattuto mistero (vedi Mussolini and Tagore di K. Kundu, Parabaas, 2011).

Qualsiasi bengalese di media cultura conosce dell’Italia molto più di quanto un italiano medio possa dire di sapere sul Bengala, ad eccezione delle tigri: non è raro inoltrarsi in conversazioni a Calcutta sul cinema di Pasolini e sulle opere di Gramsci, per non parlare delle ilarità sollevate al solo nome di Berlusconi, mentre molti italiani, seppure infastiditi dall’invasione di centinaia di migliaia di immigrati bangladeshi, spesso e volentieri inarcano le sopracciglia al solo pensiero di localizzare geograficamente quella cosa chiamata Bengala e per metà controllata politicamente da una leader di origini italiane, tale Sonia Gandhi.

Non resta che augurarsi in un futuro il più prossimo possibile uno scambio culturale un po’ meno unilaterale tra due terre ugualmente ricche di poeti, pittori e navigatori.

TO DANTE
As at dawn the golden Phoebus’ star
Harbinger of the purple-coloured sun
Dispels with lovely beams darkness afar,
So thy light from the mind of every one
Has dispelled ignorance: thy worship’s won
The sleeping Muse from her sleep astir.
In this part of the world find I none
O lucky-born bard, thy glory to mar.
Thy Muse did guide thee through the gate of Hell
Sinners forsake all hope to enter where.
Thou camest back joyous thy tale to tell.
Immortal like to the gods thou art e’er.
Can such a star fall from its sky of fame?
Can such a bud any canker e’er claim?