Pechino tesse la sua trama approfittando dell’attuale crisi politica pachistana che vede contrapposti politica, giustizia e militari. Dallo scorso novembre cerca di dare una spallata definitiva al rapporto Usa-Pakistan, sempre più incrinato.
Un quarto elemento si unisce ai tre che costituiscono l’asse portante della politica pachistana. Non più soltanto “Allah, Esercito e America”, tra i nuovi attori c’è anche la Cina, enfatizzano i commentatori della stampa indiana, attenti alle mosse di Islamabad, governo vicino geograficamente e rivale fin dall’indipendenza della Gran Bretagna nel 1947.
Pechino è stata, suo malgrado, il quarto attore anche nella disputa politica che vede opposti potere politico, giudiziario e Forze armate. Da una parte il primo ministro Yusuf Raza Gilani, accusato di oltraggio dalla Corte suprema pachistana per essersi rifiutato di richiedere alla Svizzera un’indagine sui presunti casi di corruzione che coinvolgono Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto e soprattutto attuale capo di Stato, che dunque gode dell’immunità.
Dall’altra il cosiddetto Memogate, lo scandalo legato ad un memorandum riservato del governo civile che lo scorso mese di maggio paventava il rischio di un colpo di stato militare, con l’esercito stanco delle difficoltà nelle operazioni contro i guerriglieri nelle aree tribali e irritato per il blitz statunitense ad Abbottabad che portò all’uccisione di Osama bin Laden.
È in questo scenario che il premier pachistano, in un’intervista alla stampa cinese, ha attaccato il capo delle Forze armate, generale Ashfaq Parvez Kayani, e il capo dell’Isi, i potenti servizi segreti, generale Ahmad Shuja Pasha, accusando entrambi di agire contro la Costituzione.
Parole pronunciate durante la visita in Cina di Kayani con Pechino nel ruolo di intermediario tra i due contendenti. La scelta dei tempi “non è stata una coincidenza”, ha scritto l’Hindustan Times. Più che al generale, il messaggio era rivolto proprio ai cinesi “nel timore che Kayani cercasse di portate Pechino dalla propria parte in vista di un golpe o di un cambiamento al potere”, sostiene l’analista Najam Sethi.
L’utilizzo della stampa straniera per lanciare messaggi interni, ha sottolineato il quotidiano indiano, è una costante nella politica pachistana. Lo stesso Memogate scoppiò dopo un commento dell’uomo d’affari Mansoor Ijaz sulle colonne del Financial Times, ed è continuato con interventi di Zardari sul New York Times e sul Washington Post.
Dal canto suo la stampa cinese non ha enfatizzato troppo l’accaduto, limitandosi a riportare dispacci d’agenzia, senza entrare in analisi dettagliate. Pechino ha avuto cautela nel non schierarsi né con il governo né con i militari, ha sottolineato l’Institute for Defence Studies and Analyses, centro di ricerca vicino al Ministero della Difesa di New Delhi.
Durante la sua visita Kayani ha incontrato il premier Wen Jiabao, il titolare della Difesa, Liang Guanglie, il capo di Stato maggiore, generale Chen Bingde. Ma non il presidente Hu Jintao. Il viaggio di cinque giorni è tuttavia servito a rafforzare l’asse sino-pachistano alla luce della crescente, reciproca diffidenza tra i militari di Islamabad e Washington.
Un solco allargatosi dopo l’attacco Nato del 26 novembre scorso, un “errore” costato la vita a 24 soldati pachistani.
La Cina ha già influenza sull’apparato statale e sulla burocrazia del “Paese dei puri”. Con il deteriorarsi dei rapporti con gli Usa, ha scritto Chrstina Lin della Jamestown Foundation, “Islamabad sta tentando di giocare la carta cinese come alternativa”, sebbene nel breve periodo l’opzione non sia paragonabile a quella statunitense.
Secondo l’ultimo rapporto del Center for Global Development, tra il 2004 e il 2009 Pechino ha garantito al Pakistan 9 milioni di dollari in aiuti contro i 268 milioni Usa. Mentre sul piano militare gli accordi sino-pachistani non sono comparabili con i 2,5 miliardi forniti da Washington nel 2010.
Da parte cinese c’è invece una necessità sempre maggiore di garantire i propri interessi all’estero, come dimostrano anche i militari inviati a pattugliare il Mekong a protezione dei pescherecci o le unità spedite nelle aree tribali del Pakistan nella campagna contro i militanti uiguri che in queste zone trovano riparo.
La stabilità nello Xinjiang, regione strategica per la Cina, in cui la minoranza uighura – musulmana e turcofona – rivendica da tempo autonomia in difesa della propria lingua e cultura, è una delle grandi sfide per la legittimità del Partito comunista cinese.
Tanto più mentre Pechino mira, con l’istituzione di una zona economica speciale nella città di Kashgar – culla della tradizione uigura e teatro di attacchi e scontri la scorsa estate – a rendere la regione uno degli snodi della nuova Via della Seta e dei propri rapporti con l’Asia centrale.
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