L’11 marzo 2011 un sisma di magnitudo 9.0, seguito da uno tsunami, ha sconvolto il Giappone causando oltre trentamila vittime. Tsunami nucleare è il diario del giornalista Pio D’Emilia, l’unico ad essere arrivato davanti ai cancelli della centrale nucleare di Fukushima. China Files ve ne regala un estratto (per gentile concessione dell’autore).
Lo Tsunami nucleare. I trenta giorni che sconvolsero il Giappone. 2011, Manifesto libri, Contemporanea, pp. 127, € 10,00
In un diario di trenta capitoli, quanti i giorni trascorsi al "fronte", Pio d’Emilia, corrispondente da Tokyo per Sky Tg24 e storico collaboratore de Il manifesto, racconta i trenta giorni che hanno sconvolto il destino di una nazione e modificato l’assetto economico mondiale. La cronaca del giornalista, l’unico ad essere arrivato davanti ai cancelli della centrale nucleare di Fukushima, si alterna allo sguardo dell’uomo nel tentativo di delineare le prospettivedi un paese interamente da ricostruire e minacciato da un altro possibile "tsunami", quello nucleare, i cui danni sono tutt’ora imprevedibili. Completano il volume una serie di interviste e foto scattate dopo il terremoto.
Mercoledì 16 marzo
Verso l’ora di pranzo, vedo la gente che fissa i teleschermi. Immagino subito una nuova catastrofe. Invece no, stavolta è una buona notizia. C’è Sua Maestà l’imperatore che parla. Sono passati 5 giorni dalla catastrofe e in effetti ci si cominciava a chiedere dove fosse finito.
Alcuni, maliziosi, sostenevano che avesse abbandonato anche lui la capitale, rifugiandosi a Tokyo (circostanza poi ufficialmente smentita, a Kyoto pare si siano trasferiti solo il principe ereditario e Masako, la “principessa triste”). Una “Bufala” ripresa da non pochi media, soprattutto stranieri.
“Affacciati, Affacciati” cantava Bennato negli anni ’70. Lui, l’Imperatore del Giappone, in realtà si “affaccia” di rado, un paio di volte l’anno, in genere. Tanto, come scriveva Roland Barthes nel suo criticatissmo, ma insuperato, Impero dei Segni, “si sa che c’è”. E questo è sempre bastato in tempi normali.
Ma dopo la micidiale sequenza che, secondo l’arrogante governatore di Tokyo Shintaro Ishihara, gli dèi avrebbero provocato per punire il debosciamento dello spirito nipponico, erano in molti a chiedersi che fine avesse fatto Sua Maestà, auspicandone un pubblico intervento per tranquillizzarli che gli dèi erano ancora schierati a difesa, e protezione, del paese.
Fatto sta che, a 5 giorni dal micidiale uno/due inferto ad un paese già triste e stanco, sconfortato dal sorpasso cinese e incapace di far ripartire l’economia, l’imperatore non si era fatto ancora vivo.
Neanche con un messaggio, come prevede il protocollo in caso di sciagure. Qualcuno deve essersene accorto ed ecco che all’improvviso, Akihito appare nel suo classico doppiopetto grigio, a reti unificate.
Un evento. Legge, e questo già toglie molto alla spontaneità che un “padre” deve ai suoi “figli”, per 5 minuti e 55 secondi, un messaggio semplice ed efficace, che i suoi solerti funzionari gli hanno preparato rinunciando ai vezzi, incomprensibili al popolo, del linguaggio imperiale.
Salvo in un caso, quando per dire che sta pregando per tutti quelli che soffrono, si avvita in una complicata, ieratica, giaculatoria: negaiwazuni wa irarenai (“non sarebbe possibile non accingermi a pregare”). Impeccabile.
Forma perfetta, dunque, forse anche la sostanza. Ma umanità zero. E’ una rappresentazione, una liturgia svuotata di ogni sentimento, che pure l’uomo prova ma che l’Imperatore non può esprimere, pena l’eclissi finale, lo scioglimento di quell’indistruttibile collante che lega un popolo sostanzialmente ateo ad un dio involontario, prigioniero del suo ruolo.
Ho avuto l’onore di conoscere, tanti anni fa, Sua Maestà l’Imperatore, e di giocarci perfino a tennis. Ovviamente, quando era ancora Principe ereditario.
Era il 1984, se non vado errato. Come ogni anno, il Principe ereditario veniva invitato ad inaugurare il torneo sociale di tennis della stampa estera, e quell’anno toccò a Jurek Martin, del Financial Times e al sottoscritto (all’epoca lavoravo per il Messaggero) difendere l’onore dei corrispondenti esteri.
Lo facemmo bene, cambiando campo sul 5 a 0 per noi e, dopo aver giustamente concesso un paio di games, chiudendo la partita su 6-3.
Lo ricordo come un uomo colto, mite ma anche molto spiritoso. Peccato che l’ordinamento giuridico giapponese, ma soprattutto “il sistema” di cui è solo semiologicamente al centro, non ne possa sfruttare appieno il lato umano.
Nel recente passato, qualche volta ha provato ad uscire dagli schemi, ad esempio quando, in piena polemica sulla nuova legge che reintroduceva l’alzabandiera obbligatorio nelle scuole e l’obbligo per studenti e docenti di alzarsi in piedi, intervenne pubblicamente dichiarando che l’amore per la patria doveva essere un gesto naturale e spontaneo, mai imposto.
Ma venne subito criticato per essere uscito dagli angusti ranghi della liturgia imperiale. C’è solo da sperare che, nei prossimi giorni, esca dal Palazzo e decida di portare il suo personale, oltre che istituzionale conforto e solidarietà in prima persona ai cittadini colpiti dal sisma e dallo tsunami.
Suo padre Hirohito, l’uomo che tutti ricordano come colui che alla fine fermò la guerra – dimenticando il suo ruolo nel provocarla – lo fece spesso, durante il suo lungo regno. Ed i giapponesi, che di pazienza ne hanno davvero tanta, forse troppa, per questo, forse, l’hanno alla fine perdonato.
Ma il messaggio a reti unificate dell’Imperatore non è l’unica “notizia” della giornata. Sono spuntati i primi sciacalli. Non quelli che saccheggiano le case ed i negozi, o che rubano i morti o i disperati. Quelli in doppio petto, seduti, alla scrivania, che discutono dei modi per sfruttare al meglio questa grande opportunità.
Le polemiche non sono poche e infuriano anche all’interno della comunità italiana. La prima, provocata da alcuni italiani infuriati per l’alto costo dei biglietti dell’Alitalia, è stata, in qualche modo risolta.
Dopo la denuncia di “italiani nel terremoto”, un sito appositamente creato su Facebook, che parlava di biglietti venduti a 6mila euro, l’Alitalia ci ripensato e ha annunciato, pare dopo una sfuriata dell’ambasciata italiana a Tokyo, una tariffa speciale di 800 euro.
Ancora troppo, ma si può fare. Resta il quesito sul perché l’Ambasciata abbia pensato solo a consigliare, e logisticamente sostenere, ai cittadini italiani, il “rientro” in Italia.
Un conto sono gli italiani di passaggio (ai quali l’Alitalia, per il cambio data, chiede comunque una penale) e i residenti temporanei. Ma la maggior parte degli italiani in Giappone è rappresentato da famiglie miste, gente che vive stabilmente in Giappone e che magari non ha più nessun legame con l’Italia. Se rientra, dove va?
Forse sarebbe stato il caso di aiutare a trovare anche un’opzione “locale”, come pare abbiano fatto altro ambasciate. Ma il problema drammatico, per tutti gli stranieri, è cosa fare.
I governi stranieri non hanno una posizione comune, e soprattutto, cambiano spesso la “lettura”, come del resto è comprensibile vista la penuria, e a volte contraddittorietà, delle informazioni.
Così c’è chi tranquillizza e dice, come gli Usa, che le procedure attuate dai giapponesi sono impeccabili e che anche nel peggiore dei casi (meltdown di tutti i reattori) Tokyo sarebbe al sicuro comunque, a prescindere dai venti.
E c’è chi sostiene, come la Francia, che siamo di fronte ad un rischio ben maggiore di Cernobyl e che bisogna evacuare al più presto dal paese.
Difficile dire chi abbia ragione, ma una cosa è certa. Dietro alla previsioni ci cono interessi politici e commerciali. I reattori in funzione a Fukushima, come nel resto delle centrali, sono di fabbricazione Usa, che ovviamente vorrebbe continuare il lucroso business.
Mentre la Francia, orgogliosa dei suoi, vorrebbe vendere i suoi, come ha cercato di fare, con dubbia scelta del tempo, il presidente francese Sarkozy, arrivato a Tokyo, auto invitatosi a Tokyo il 31 marzo per portare la solidarietà europea al governo giapponese (ma portandosi dietro una folta rappresentanza dell’Areva, l’azienda francese per la promozione e produzione di Energia Nucleare).
L’Ambasciata d’Italia, fa la sua parte, pubblica aggiornamenti continui e, per quanto possibile, precisi e i funzionari sono tutti molto disponibili. L’Ambasciatore Petrone conquista i titoli di prima pagina, quando dichiara, a Sky Tg24, che i livelli di radioattività a Tokyo, al momento, sono inferiori a quelli di Roma.
Mentre aspetto che si faccia mattina in Italia, provo a contattare degli amici locali. Dopo trent’anni, ho amici un po’ dappertutto. Ed in Giappone si usa molto “segnalare” (con una telefonata, o al massimo, oggi, con una mail, guai a presentarsi di persona). E sono senza macchina.
Nel caso (in realtà dentro di me ho già deciso….) decida di restare, debbo procuramene una. E non sarà facile. Funaki san, il mio amico tassista (nei giorni seguenti gli procurerò un business non indifferente, indirizzandogli le richieste di decine di colleghi dai ricchi budget e che non se la sentono di guidare) mi ha informato che la prefettura di Akita ha dato disposizione alle agenzie di noleggio di non affittare macchine.
Agli stranieri, in particolare. La situazione è quella che è l’ultima cosa che vogliono, le autorità, è andare a cercare gli stranieri che si perdono, che restano senza benzina, che non rispettano le regole. Non posso crederci, ma ci sta.
All’improvviso mi viene in mente Hiroaki Mase. Un grande. Ex dipendente delle Ferrovie dello Stato (privatizzate, pochi lo sanno, grazie ad un piano di ristrutturaziobe redatto da Paolo Costa, l’ex sindaco di Venezia) e dirigente del Kokuro, il sindacato più “antagonista” del settore pubblico.
Quello che negli anni ’70 portava in piazza (si fa per dire, in Giappone non ci sono “piazze”) centinaia di migliaia di persone. Che non si fermavano ai semafori.
Lo conobbi nei primi anni ’80, durante uno dei miei primi reportage Andai in Hokkaido per vedere a che punto erano i lavori del Seikan Tunnel, l’ambizioso progetto che avrebbe unito, con il tunnel più lungo del mondo, le isole di Honshu e Hokkaido.
Ricordo la lunga discussione che tenemmo sul fatto che le donne, per nessun motivo, potevano metter piede nel cantiere di un’opera pubblica ancora in costruzione.
Regola che avrebbe costretto la collega francese con cui stavo viaggiando ad aspettare fuori dal tunnel, per parecchie ore. “Ma quando mai – gli dissi – un sindacato di sinistra non può accettare una simile condizione, non importa quanto sia antica e indisputata”.
Alla fine trovammo la soluzione, affidandoci ad un’altra, altrettanto antica, tradizione locale. Quella del travestimento (oggi si chiama kosu-play, ma è sempre quella). Trasformammo la collega francese in un maschio, sia nell’aspetto che nella registrazione e la facemmo passare.
Tanto, allora come ora, non c’era bisogno di mostrare documenti, ma di compilare, e a matita, un semplice questionario. Da allora con Mase, che nel frattempo è andato in pensione ed è molto attivo nel volontariato, siamo rimasti sempre in contatto. E’ venuto a trovarmi in Italia, e spesso mi ha ospitato, anche con tutta la mia famiglia nella sua casa a Noboribetsu, nell’isola di Hokkaido.
Mase ha un discreto network e quando ho un problema a nord di Tokyo, in genere mi rivolgo a lui. “Ho bisogno di una macchina Mase san – gli dico, dopo aver speso il tempo necessario a racontarci gli ultimi due anni delle nostre vite, tanto è che non ci sentiamo – e mi trovo ad Akita. Puoi aiutarmi?”
Prima ancora di parlare con il mio direttore, e comunicargli quello che in effetti ho già deciso (di restare) mi chiama tale Suzuki, da Aomori . “Salve, sono un amico di Mase. Non si preoccupi per la macchina. Gliene trovo una io, mi dica solo da quando la vuole”.
L’ostacolo tecnico più difficile è superato, ora vediamo come la pensano a Roma.
La telefonata con il direttore è, come sempre, breve ed efficace. E Carelli, da bravo direttore, fa quello che deve fare un bravo direttore: pur chiedendomi di dare priorità assoluta alla mia salute e sicurezza personale, si affida alla mia valutazione.
In effetti, è difficile da fuori prendere delle decisioni, a meno che, come talvolta succede, non si voglia applicare le “procedure” aziendali alla lettera.
Ma un conto è far partire qualcuno da Roma adesso, altro è decidere di far rientrare uno che già è sul posto. Col senno di poi, debbo dire che anche se mi avesse chiesto di rientrare avrei probabilmente rifiutato.
E sono grato al mio direttore per avermi lasciato libero di decidere, appoggiando poi tutte (o quasi….) le mie richieste. Immagino non sia stato facile.
Le notizie che battevano in quei giorni le agenzie internazionali, amplificate e condite di particolari più o meno agghiaccianti dagli “inviati” che debbono comunque giustificare il fatto di essere sul “posto” (ma cosa si intende, per “posto”? Stesso paese? Stesso continente? Come si fa a valutare la situazione standosene, come qualche collega ha fatto, ad Hong Kong?) non aiutavano certo un direttore a prendere una decisione.
Erano i giorni in cui i reattori di Fukushima, uno dopo l’altro, denunciavano esplosioni, probabili fusioni, crepe e malfunzionamenti vari, con il ministro dell’ambiente francese, Nathalie Kosciusko-Morizet, la prima a citare Chernobyl, che parla di “apocalisse oramai inevitabile”.
Un ingegnere “pentito” della Tepco, Masashi Goto, intercettato in un’osteria di Fukushima da alcuni giornalisti locali – e poi “reinterpretato” a iosa dai media internazionali -. afferma che gli edifici di contenimento dei reattori, nella centrale, erano stati deliberatamente costruiti “al risparmio” e che l’azienda era a conoscenza che non avrebbero sopportato un sisma superiore al sesto grado.
Dichiarazioni che dopo un paio di passaggi provocheranno, in giro per il mondo, titoli apocalittici. Pochi media si cureranno, il giorno dopo, di correggere il tiro e pubblicare la “smentita” dello stesso Goto, che sostiene di essersi lasciato andare a causa di un paio di birre in più.
La verità è che nessuno, ma proprio nessuno, sa cosa sia davvero successo all’interno dei reattori, anche se tutti immaginano che, date le circostanze ed il susseguirsi degli eventi, una qualche forma di fusione sia avvenuta e che la “fuga” di radioattività, di proporzioni che ancor oggi, al momento di scrivere (prini di maggio) non è dato sapere con certezza sia una realtà.
Ma da qui a evocare Chernobyl. allora come ora, ce ne vuole. Non è certo esagerando un’emergenza, e seminando il panico, che si fa informazione, Né, tantomeno, che si combatte e vince la battaglia contro il nucleare.
Vale forse la pena a questo punto chiarire, con il lettore, quale sia la mia posizione sul nucleare, soprattutto per coloro i quali, scorrendo queste prime pagine, potrebbero essere portati a pensare che non essendone sufficientemente inorridito, non sia abbastanza “contro”.
Tranquilli. Io sono, e da sempre, contrario al nucleare. Ho votato a suo tempo per l’uscita dal nucleare e spero sinceramente che il referendum di quest’anno si faccia e venga di nuovo vinto, in modo da scongiurare qualsiasi ipotesi anche lontana – come c’è oggi – di inversione di rotta.
Ma la mia opposizione non è ideologica né tantomeno fondamentalista, categoria di pensiero che non mi si addice e alla cui presenza, inevitabilmente, rischio di assumere, anche solo per pura provocazione, posizioni opposte.
Per sconfiggere per sempre il nucleare, “dimissionandolo” dove è in funzione ed evitando di istituirlo dove non c’è, basterebbe puntare sull’informazione corretta (sia in tempo di pace, nelle scuole, sui media, nei dibattiti istituzionali) sia e soprattutto in tempi di “emergenza”.
Denunciandone, puntualmente e correttamente, incongruenze, rischi e costi (non sono finanziari, ovviamente) e lasciando alla gente, laddove la gente può, tutto sommato, decidere (in Giappone no, visto che non esiste l’istituto del referendum).
L’esempio di Fukushima, più ancora che in occasione di Three Miles Island e Chernobyl penso sia davvero…esemplare. E se, come sembra accadrà, terrà i poveri giapponesi ed il mondo intero con il fiato sospeso per ancora molti mesi, se non anni, darà un contributo probabilmente detereminante, se non decisivo alla fine del nucleare non solo in Giappone, ma nel mondo intero.
Più che la catastrofe realizzata (come Chernobyl, che pian piano avevamo dimenticato) può infatti la catastrofe annunciata e incombente. L’incubo di quello che può succedere deve convincerci tutti della pericolosità di questa malaugurata “scelta”.
Come si fa a tenere milioni di persone, migliaia di ettari, miliardi di investimenti sotto il costante rischio di una catastrofe nucleare? E questa insicurezza, questo incubo che, da solo, dovrebbe, empiricamente, convincerci tutti, senza bisogno di ricorrere allo scontro ideologico, di dire addio al nucleare.
Viceversa, ogni volta che scriviamo una stronzata, tipo che milioni di giapponesi fuggono dalla capitale (con la mascherina antipolline…) per sfuggire alla nube tossica che oramai incombe sulla città, portiamo acqua al mulino di coloro che, abbastanza colti e immuni ai sesazionalismi, finiscono per accreditare il concetto del nucleare sì, “a patto che sia sicuro”.
E’ l’atteggiamento vincente, quello che sostengono i francesi, quando vanno a “piazzare” in giro per il mondo – Giappone tsunamizzato compreso – il loro reattori “supersicuri” e quello che di cui i giapponesi, grazie al lavaggio di cervello che hanno per anni subito, sono (ancora) convinti.
Non pensiate che i giapponesi siano diventati, improvvisamente, antinucleari. Qualcosa si sta muovendo, lentamente, ed alcune recenti manifestazioni hanno visto per la prima volta, dopo molti anni, una notevole mobilitazione sociale e “trasversale”.
Ma secondo un recentissimo sondaggio dell’Asahi, se è vero che gli antinucleari sono notevolmente cresciuti (rispetto al 2007) dal 28% al 41% (con un’impennata delle donne, passate dal 33% al 55%) il fronte filonucleare, tutt’ora maggioranza è sceso solo di due punti, dal 53% al 51%. Segno di una presa di posizione di coloro che non ce l’avevano, ma di uno “zoccolo duro” filonucleare duro da abbattere. Ma appunto, le cose stanno cambiando.
L’incidente di Fukushima, di cui non siamo ancora in grado di prevedere quali saranno le drammatiche reali conseguenze che alla fine provocherà sull’ambiente e sulla salute delle persone, ha dato e sta dando una mano enorme al movimento antinucleare.
Il complesso di Fukushima (formato da 2 centrali, per un totale di 10 reattori) è infatti uno dei maggiori impianti nucleari al mondo, costruito oltre 40 anni fa, a costi e prebende probitivi, per l’epoca3, dalla General Electric, ed era considerato, sino all’11 marzo e nonostante la sua vetustà, tra i più sicuri.
Il suo “decommissionamento” era previsto per il maggio 2012, fra un anno esatto (di qui il il già accennato, malcelato interesse dei francesi, che da tempo cercano di “entrare” sul mercato giapponese, considerato sino a qualche mese fa tra i più promettenti).
E fin dai primi giorni tutti i maggiori esperti nucleari, locali ed internazionali, concordano su un paio di punti: che la situazione a Fukushima era e resta grave ma non “catastrofica” e che, anche immaginando lo scenario peggiore (esplosione e fusione totale di tutti i reattori, completamente diversi per forma, sostanza ed architettura da quello di Chernobyl) i danni, pur gravissimi, interesserebbero solo una zona, più o meno estesa, limitrofa alla centrale.
Magari non solo i 20 chilometri, magari il doppio, il triplo. Magari dieci volte tanto. Ma che Tokyo, e i suoi venti milioni di abitanti possano essere in qualche modo a rischio non l’ha immaginato, né l’immagina, nessuno.
Ma basta e avanza, mi sembra. Mettere nel conto che di punto in bianco centinaia di migliaia di persone, forse più di un milione debbano abbandonare per sempre la loro zona di residenza, inventandosi una nuova vita non basta per chiudere definitivamente con il nucleare?
Forse, ora che la lobby nucleare non ha più tanti soldi da sperperare, il suo potere contrattuale sui grandi media e network si allenterà, e chissà che anche su testate come l’Asahi o lo Yomiuri, sinora decisamente allineati, affiorerano voci diverse e magari critiche. Non me ne stupirei.
L’aver puntato sul nucleare è, alla fine, il vero peso, il vero saldo negativo con cui il Giappone va ad affrontare la ricostruzione. La difficoltà di reperire, e garantire sufficiente e stabile fornitura di energia è il motivo per il quale, già da ora, le grandi industrie, dalla Toyota alla Sony, dalla Honda alla Panasonic stanno decidendo di abbandonare il Tohoku al suo destino, accelerando quella delocalizzazione che, per un motivo o per l’altro, le aziende giapponesi avevano rimandato.
*Pio D’Emilia, giornalista, si è occupato di Giappone e sud est asiatico per circa trent’anni, collaborando con il Messaggero, Il Manifesto, l’Espresso e la Rai. Dal 2005 è corrispondente dall’Estremo Oriente per Sky Tg 24.